L'intervista

«I bambini, a Gaza, sono numeri: chi ha il potere, da un lato come dall'altro, fermi tutto questo»

Da mesi, nella Striscia, i civili e soprattutto i più piccoli stanno sopportando incredibili sofferenze – Ne parliamo con Ricardo Pires, responsabile della comunicazione in seno a UNICEF
© Abdel Kareem Hana
Marcello Pelizzari
25.05.2024 09:00

La situazione, a Gaza, è apocalittica. Non usa giri di parole, Ricardo Pires, responsabile della comunicazione in seno a UNICEF, per descrivere quanto sta accadendo all'interno della Striscia. Dove la guerra, oramai, imperversa da mesi. Il Fondo delle Nazioni Unite per l'infanzia, l'UNICEF appunto, da tempo chiede un cessate il fuoco immediato e un accesso umanitario senza restrizioni, affinché i suoi volontari possano raggiungere i bambini e le famiglie in difficoltà, salvare vite e prevenire ulteriori sofferenze. I bambini, proprio loro, «stanno vivendo uno scenario da incubo» ribadisce Pires. È l'inizio di una lunga intervista.

Signor Pires, innanzitutto: quanto è pesante la situazione, per i più piccoli, ora che Israele ha intensificato le sue operazioni a Rafah?
«Migliaia e migliaia di bambini erano stati spinti verso Rafah con la promessa che sarebbe stato un luogo sicuro per loro. Detto che a Rafah c'erano già 1,2 milioni di persone sfollate, di cui la metà circa erano minori, adesso abbiamo assistito a un ulteriore spostamento di massa. Verso un'area ancora più piccola e con capacità decisamente ridotte per ospitare una popolazione così numerosa». 

Si riferisce alle cosiddette zone umanitarie previste dal'IDF, le Forza di difesa israeliane.
«Nello specifico, parliamo di aree sabbiose. Senza risorse né infrastrutture. Alcuni bambini sono stati sfollati, dall'inizio dell'offensiva israeliana, tre, quattro, cinque o addirittura sei volte. Bambini che, giova ricordarlo, non hanno accesso all'acqua e ai servizi igienici. Bambini che, di conseguenza, si ammalano, anche perché non può esserci assistenza medica per tutti. E questi numeri, i numeri di chi sta male, sono in aumento. L'offensiva di Rafah, intanto, continua. Tant'è che continuiamo a vedere immagini orribili di bimbi morti per le strade di Rafah. Bimbi considerati sempre più come dei semplici numeri».

Sui numeri ci soffermeremo più tardi. Che cosa può dirci, ancora, dei bambini all'interno della Striscia?
«Dico che ogni bambino vittima di questo conflitto aveva un nome. Una vita. Dei sogni. Una famiglia, anche. L'UNICEF, sin qui, ha assistito a tanti, troppi bombardamenti indiscriminati».

Prima accennava alla mancanza di acqua e servizi igienici...
«Una mancanza che si traduce in condizioni sempre più pericolose per la diffusione di malattie. È questione di tempo, ma è chiaro che presto o tardi le malattie uccideranno più delle armi e delle bombe. In altre parole, la situazione per i bambini all'interno della Striscia di Gaza è apocalittica. Per questo, proprio per questo, continuiamo a chiedere con forza un cessate il fuoco e l'apertura di tutti i corridoi umanitari affinché giungano più aiuti. Ecco, la situazione degli aiuti meriterebbe un capitolo a parte: al ritmo attuale, gli aiuti non soddisfano la richiesta. E noi, come UNICEF, stiamo esaurendo le parole. Anzi, a ben vedere le parole non bastano per descrivere e spiegare quanto sia grave e traumatizzante la condizione di questi bambini da sette mesi a questa parte».

Veniamo ai numeri: la conta finale resta tragicamente alta, ma rispetto alle cifre fornite dal Ministero della Salute legato a Hamas, l’Ufficio delle Nazioni Unite che coordina gli aiuti umanitari è giunto ad altri risultati. Dimezzando, in particolare, le stime delle vittime fra donne e bambini. Com'è possibile?
«È bene spiegare come fa l'UNICEF e, in generale, come fanno le Nazioni Unite a raccogliere questi dati. O, meglio, come si sviluppa il cosiddetto processo di verifica. Durante un conflitto, le Nazioni Unite tengono traccia di tutte le segnalazioni pertinenti e disponibili riguardanti le vittime. E le fonti, solitamente, sono diverse. Dal nostro personale sul campo ai giornalisti indipendenti, passando per le organizzazioni non governative e le autorità sanitarie dei Paesi in guerra. A Gaza, per contro, viviamo una situazione differente, visto che – ad esempio – i giornalisti non sono ammessi. Di riflesso, per noi è più difficile o comunque meno immediato effettuare verifiche indipendenti rispetto ai numeri forniti dal Ministero della Salute di Hamas. Detto ciò, e al netto delle correzioni, abbiamo motivo di credere che il numero delle vittime fra i minori, in realtà, non si discosterà di molto rispetto a quanto finora comunicato. Mi spingo oltre: qualsiasi cifra sin qui formulata potrebbe rivelarsi sottostimata, quando finalmente finirà la guerra».

Il problema più stringente legato agli aiuti è la mancanza di carburante a Gaza. Senza benzina, banalmente, i camion non possono spostarsi e distribuire gli aiuti in maniera capillare

Gli aiuti meriterebbero un capitolo a parte, diceva: crede che con l'installazione del molo galleggiante, voluto dagli Stati Uniti, le cose cambieranno in meglio?
«Vorrei rispondere di sì. Ma la realtà è ben diversa. Purtroppo. Anche perché, al momento, mancano molti dettagli riguardanti il molo. Inoltre, il problema più stringente legato agli aiuti è la mancanza di carburante a Gaza. Senza benzina, banalmente, i camion non possono spostarsi e distribuire gli aiuti in maniera capillare. In linea di massima, poi, l'aiuto via strada rimane il modo più efficiente per distribuire aiuti. Quelli che arrivano via nave o via aerea non raggiungono l'intera popolazione».

Ma le cose, al molo, funzionano o no?
«Se penso alla prima consegna dico di no. D'altro canto, il volume consegnato era l'equivalente di diciannove camion. Tradotto: non era abbastanza, soprattutto se pensiamo che prima del 7 ottobre, all'interno della Striscia, di camion ne entravano cinquecento. Con rifornimenti umanitari e beni commerciali. Volendo usare una metafora, quel molo – per quanto bene accetto – è una goccia nell'oceano. Non finisce qui: noi, come UNICEF, non sappiamo che tipo di merce arriva. Se si tratta di cibo, di altro materiale, di medicine».

Qual è la soluzione, allora, agli occhi di UNICEF?
«Aprire tutti i valichi. Molti, oggi, sono chiusi. E rimarranno chiusi. Le aperture maggiori sono a nord, ma poi è complicato scendere a sud per distribuire i rifornimenti. Quantomeno in tempi brevi».

UNICEF come ha reagito, invece, alla richiesta del procuratore capo della Corte penale internazionale di spiccare mandati d'arresto per Netanyahu e Gallant, per tacere della richiesta formulata dalla Corte internazionale di giustizia di fermare l'offensiva a Rafah? 
«Non ho le competenze e le conoscenze tecniche necessarie per commentare un'indagine in corso. Come UNICEF, però, e parlo in linea generale e non dei casi specifici, vogliamo sempre che le responsabilità vengano accertate. Chi viene ritenuto colpevole di gravi violazioni dei diritti dei bambini e dei diritti umani, beh, deve risponderne. Detto che non commento la mossa del procuratore capo, fra le altre, mi preme sottolineare che i bambini di Gaza non hanno più tempo di aspettare. Sono le figure più vulnerabili di questa guerra e ne hanno passate tante, troppe in questi sette mesi. Sono esausti. Sono traumatizzati».

Come sono i rapporti con Israele?
«Come UNICEF, abbiamo una rappresentanza in Palestina. A Gerusalemme Est. Attraverso questa rappresentanza cerchiamo di assicurarci che tutti i problemi sin qui evidenziati, come la mancanza di aiuti e sicurezza, arrivino alle autorità israeliane. Anche privatamente, in maniera diciamo informale, facciamo in modo che Israele sia informato delle sofferenze cui sono costretti i bambini nella Striscia di Gaza. Al momento, stiamo insistendo sul fatto che la densità di popolazione, a Rafah, un'area già di suo affollata, ora è il doppio rispetto a quella di New York. Senza gli edifici e le infrastrutture di New York, va da sé. E senza acqua, cibo sicuro, ospedali e servizi igienici. Credeteci: stiamo facendo di tutto e di più per evitare una catastrofe ancora maggiore».

Chi detiene il potere, da un lato come dall'altro, dovrebbe e potrebbe fermare tutto questo. È una decisione che va assolutamente presa. È necessario che tutti gli ostaggi nelle mani di Hamas tornino a casa, che le armi tacciano e le bombe smettano di cadere

I bambini non hanno tempo, affermava in precedenza. Eppure, al di là del diritto di Israele a difendersi, un aspetto centrale considerando i massacri di Hamas, la guerra prosegue. Gli appelli giungono da più parti, incessanti, perfino gli Stati Uniti hanno criticato lo Stato Ebraico per non aver garantito a sufficienza la sicurezza dei civili. Ma, appunto, le armi continuano a dominare. Altra domanda banale: perché?
«È una bella domanda, in realtà. Continuiamo a sentire e vedere storie terribili. Storie di bambini che hanno perso le loro famiglie, che sono rimasti intrappolati sotto le macerie o che hanno perso uno o più arti. Bambini che, in ospedale, vengono trattati senza anestesia. E che, oltre a doversi riprendere dal trauma di un'amputazione come detto, magari scoprono di aver perso i genitori. La violenza, purtroppo, non sta diminuendo né si sta fermando. È in aumento. E il punto è che tutte queste morti erano e sono evitabili. Chi detiene il potere, da un lato come dall'altro, dovrebbe e potrebbe fermare tutto questo. È una decisione che va assolutamente presa. È necessario che tutti gli ostaggi nelle mani di Hamas tornino a casa, che le armi tacciano e le bombe smettano di cadere, che gli aiuti possano finalmente arrivare e consentire ai volontari di UNICEF di salvare vite. Per questo, per tutto questo stiamo alzando la voce e spingendo per un cessate il fuoco».

Un giorno, questa guerra finirà. E si parlerà di ricostruzione. Come immagina UNICEF il futuro dei bambini nella Striscia di Gaza? 
«Anche questa è una bella domanda. Fisicamente ed emotivamente, questi bambini sono distrutti. Più generazioni sono rimaste traumatizzate dagli eventi degli ultimi mesi. Come UNICEF, al di là di tutto, dobbiamo mostrarci e rimanere ottimisti. Proprio perché molte persone dipendono dal nostro sostegno e dal nostro lavoro sul campo. Poi, certo, la realtà è pesantissima. Apocalittica, come spiegavo. Le cose erano complicate già prima del 7 ottobre, a dire il vero: tre bambini su quattro, nella Striscia, erano stati identificati come bisognosi di aiuto, urgente, a livello di salute mentale. Possiamo quindi affermare con certezza che, con l'escalation, tutti i bambini di Gaza hanno subito traumi inenarrabili. E questi traumi non si cancelleranno certo con l'agognato cessate il fuoco o con la fine della guerra. È qualcosa che i bambini, tutti i bambini come dicevo, dovranno elaborare. E con cui dovranno convivere probabilmente per tutta la vita».

Ci dica qualcosa all'insegna dell'ottimismo, allora, per chiudere questa intervista.
«Come UNICEF, ribadisco, dobbiamo credere in un futuro migliore. Sempre. Dobbiamo credere che, un giorno, riusciremo a raggiungere tutti i bambini. Riusciremo ad aiutarli, anche. E a fare in modo che possano elaborare il dolore, il lutto. E dobbiamo credere che dalle macerie risorgeranno le scuole. Più di ogni altra cosa, dobbiamo credere e, di riflesso, fare in modo che le generazioni future non paghino più un prezzo così alto».

Ricardo Pires. © UNICEF
Ricardo Pires. © UNICEF