Medio Oriente

«Il riconoscimento della Palestina? La scelta di Macron è un passo politico significativo»

L'intervista a Alessandra Annoni, ordinaria di Diritto internazionale all’Università di Ferrara
©Jehad Alshrafi
Dario Campione
26.07.2025 06:00

Alessandra Annoni, ordinaria di Diritto internazionale all’Università di Ferrara, si occupa da anni di temi quali la tutela della persona nei conflitti armati, argomento sul quale ha scritto numerosi saggi e un volume insieme con Francesco Salerno edito da Cacucci. Il CdT l’ha intervistata.

Professoressa Annoni, il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato il riconoscimento della Palestina. Che valore ha questo annuncio? Perché è importante, se lo è davvero?
«È certamente importante: con il riconoscimento, uno Stato afferma che un altro Stato ha le caratteristiche per essere considerato tale nel senso del diritto internazionale; quindi, ha un suo popolo, un suo territorio e un suo governo che esercita poteri effettivi su quel popolo e su quel territorio. Non si tratta di un atto dovuto. Uno Stato è uno Stato anche se non è riconosciuto da tutta la comunità internazionale. Israele stesso non è riconosciuto da alcuni Paesi arabi, ma nessuno dubita che si tratti di uno Stato. Ma il fatto che sia stata la Francia - primo Stato occidentale membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU - a compiere questo passo verso la Palestina, è rilevante: dal punto di vista giuridico e politico».

Il presidente degli USA Donald Trump ha detto però ieri che la mossa di Macron non ha peso.
«Io credo invece che sia un passo concreto verso la soluzione che tanti dicono di voler perseguire, la soluzione “due popoli due Stati”. Per il momento, abbiamo i due popoli, ma di Stato riconosciuto universalmente o quasi ce n’è uno soltanto. Dopodiché, il riconoscimento non ha un’efficacia costitutiva, non può cambiare la situazione sul campo. Non farà terminare l’occupazione, né darà la pienezza dei poteri alle autorità palestinesi sul loro territorio. Però la Francia, politicamente, dice al mondo che riconosce alla Palestina, come Stato, gli stessi diritti di qualunque altra entità nazionale, compreso il diritto al rispetto della sua integrità territoriale».

Un territorio, però, dai confini tuttora molto incerti.
«Vero, ma sono incerti esattamente come i confini di Israele. Il tema che si pone è, appunto, questo: dove tracciare i confini, non ancora definiti e fermi agli accordi del 1948».

Secondo lei, perché il diritto internazionale si è indebolito così tanto, fin quasi a scomparire in alcune circostanze? Penso a Gaza, ma anche all’Ucraina.
«Non credo che sia il diritto internazionale a essersi indebolito. Le norme ci sono. E tutti gli Stati, compresi quelli che le violano, continuano ad affermarne la rilevanza. Pensiamo, ad esempio, alle norme di diritto bellico che vietano di attaccare gli ospedali, di colpire deliberatamente i civili o di affamarli come metodo di guerra: sono sicuramente infrante nell’ambito dei conflitti a cui lei accennava. Ma le parti che le violano, negano di farlo. Riconoscono la rilevanza della regola, ma cercano di trovare giustificazioni per il proprio operato. La regola c’è, il problema è la sua effettività: la mancanza di reazione degli altri Stati di fronte a una palese violazione».

Succede perché manca la forza di imporre il rispetto di queste regole?
«Il diritto internazionale ha un problema strutturale: non esiste un organo supremo, sovraordinato rispetto agli Stati, che abbia, da statuto, il compito di accertare le violazioni e intervenire per garantire l’effettività del diritto. Non esiste, insomma, una polizia internazionale, un giudice supremo che possa intervenire tutte le volte che il diritto internazionale è negato. La sua effettività riposa, in larga misura, sulla volontà degli Stati, i quali dovrebbero reagire alle violazioni. Il Consiglio di sicurezza, unico organo dell’ONU che potrebbe intervenire in modo coercitivo, è paralizzato dal veto russo (nel caso dell’Ucraina) e da quello USA (nel caso della Palestina). Contro la Russia però gli Stati occidentali non hanno esitato ad adottare sanzioni unilaterali, mentre contro Israele, al momento, non è ancora stata adottata alcuna iniziativa incisiva».

Lei ha approfondito nei suoi studi giuridici il tema della tutela internazionale della persona umana nei conflitti armati. Le immagini che ogni giorno giungono soprattutto dalla Striscia di Gaza sono strazianti, in particolare quelle dei bambini che stanno morendo di fame. Come si può tutelare davvero l’essere umano nelle guerre?
«Usare la fame come metodo di guerra è tassativamente proibito. La situazione nella Striscia di Gaza è però particolarmente difficile anche in ragione dell’interpretazione che Israele fa delle regole di diritto umanitario. In guerra si possono colpire i combattenti ma non i civili; i centri di comando militari ma non gli ospedali, le scuole o gli edifici che hanno una funzione prettamente civile. Le regole sono chiare, ma Israele le interpreta in maniera talmente estensiva da svuotarle di contenuto. Le faccio un esempio: se all’interno di un palazzo di 5 piani c’è un combattente di Hamas, quel combattente è certamente un obiettivo militare legittimo. Può essere colpito. Tuttavia, la sua presenza all’interno del palazzo non trasforma l’intero edificio in un obiettivo militare che può essere distrutto. C’è poi un altro principio fondamentale da rispettare».

Quale?
«Il principio di proporzionalità. Colpire un obiettivo militare è legittimo se si trova in una zona isolata o se gli eventuali danni collaterali sono minimi. Proporzionati, appunto, al vantaggio militare. Se per colpire un combattente di Hamas uccido 50 bambini, evidentemente non c’è più proporzionalità. E non basta emanare un ordine di evacuazione prima di attaccare. La persona che non si sposta magari non può farlo, cura un parente anziano o è in un ospedale attaccato a un respiratore. Non si può, insomma, stravolgere il senso delle norme di diritto umanitario svuotandole del loro contenuto protettivo».