L’intervista

«In alcune banlieue francesi l’islamismo esercita un fine controllo»

Il professore di sociologia politica Bernard Rougier spiega la minaccia dell’integralismo islamico
Donne coperte dal niqab camminano in una via di Marsiglia. © Reuters/Jean-Paul Pelissier.
Danilo Ceccarelli
11.03.2020 06:00

Bernard Rougier, professore di sociologia politica del mondo arabo all’università Paris 3-Sorbonne Nouvelle, ha pubblicato in Francia «I territori conquistati dall’islamismo», edito da Puf. Un libro-inchiesta realizzato con la collaborazione dei suoi studenti, che hanno analizzato il processo di radicalizzazione di alcune banlieue francesi. Lo abbiamo intervistato.

Di che Islam stiamo parlando?

«Si tratta di un islamismo orientato dai Fratelli musulmani, dal movimento Tabligh o dal salafismo. Queste tre espressioni hanno un’egemonia negli ambienti che abbiamo studiato. È stato sorprendente vedere fino a che punto i concetti strutturali del salafismo si siano imposti un po’ ovunque».

Ad esempio?

«Abbiamo ritrovato questi principi nei corsi effettuati nella moschea di Mantes-la-Jolie, vicino Parigi. Questo non vuol dire che chi dirige il centro sia d’accordo, ma un po’ per vigliaccheria, un po’ per favorire la pace religiosa, è stato permesso a degli imam itineranti di fare le loro lezioni».

Cosa l’ha colpita di più durante la realizzazione del libro?

«Nelle zone analizzate (le banlieue ndr) ho riscontrato un’organizzazione religiosa strutturata in modo simile a quella che ho visto in Giordania, in Egitto o in Libano. Un aspetto ignorato o tralasciato dagli specialisti dell’islam in Francia, che non hanno visto questa dimensione transnazionale».

In che modo l’influenza islamista opera nei quartieri popolari?

«È un controllo velato sul comportamento delle persone che agisce a vari livelli: quando si mangia, nelle paninerie halal o quando si pratica sport nelle palestre. Tutti gli ambienti sociali ne sono impregnati. È sufficiente che le nuove idee messe in circolazione da alcune figure presenti nella moschea convincano una minoranza presente nella comunità affinché questa ne divenga il guardiano, installando così una forma di controllo religioso in modo molto fine e impercettibile».

Come è possibile che la Francia non abbia visto arrivare questo problema?

«Non se ne è voluto parlare per evitare di fomentare gli stereotipi sulle banlieue e dare argomenti all’estrema destra».

C’è una responsabilità della classe politica?

«Certamente, ma anche degli intellettuali e dei ricercatori universitari. Il fenomeno è stato sottovalutato e trattato spesso in modo caricaturale».

In cosa hanno sbagliato gli osservatori?

«Negli ultimi 15 anni i lavori del Consiglio europeo della ricerca si sono concentrati troppo sul fallimento dei sistemi di integrazione messi in atto dalle politiche nazionali. I processi di radicalizzazione sono stati affrontati poco, solamente in un’ottica globale che includeva anche altri tipi di violenza come quella dell’estrema destra. L’attenzione si è focalizzata sui percorsi individuali, come i processi di reclutamento su internet, tralasciando le trasformazioni macrosociologiche sorte nella strutturazione dell’Islam in Europa».

Quando è avvenuta la ‘rottura’ che ha portato alla radicalizzazione nelle zone periferiche della Francia?

«Tra la fine degli anni Novanta e il Duemila, anche se è difficile stabilirlo con esattezza. È cominciata nella famiglia, con i figli che consideravano i genitori come dei cattivi musulmani, per poi continuare a livello comunitario, attraverso ad esempio i matrimoni religiosi. Il fenomeno è avvenuto sul fondo di processi socio-economici evidenti, come il processo di deindustrializzazione che ha colpito alcune zone del Paese».

Quali armi si possono usare contro questo problema?

«Personalmente, non sono molto ottimista. Penso che lo Stato non sappia cosa accada nella società francese, neanche gli ambienti specializzati. C’è una disconnessione tra la classe dirigente e amministrativa e il territorio. Alcuni servizi, come la Direction générale de la Sécurité intérieure (DGSI), sono competenti nello studio dei grandi pericoli, ma non ci sono strumenti in grado di misurare le evoluzioni ideologiche e il clima sociale».

Il presidente Macron vuole riorganizzare l’Islam in Francia per lottare contro la radicalizzazione. Cosa ne pensa?

«Prende in considerazione il problema e già il solo fatto di nominarlo è una cosa positiva. Il limite, però, è che il progetto sembra mirato solo verso quelle forme di salafismo più caricaturali, trascurando i gruppi che penetrano nei diversi strati della società. Macron non osa mostrare una dottrina completa perché ci sono problemi all’interno della suo partito, La République en marche, dove è presente una corrente multiculturale. A questo si aggiunge il fatto che il Governo dovrebbe firmare delle carte con dei dirigenti di associazioni affinché questi si impegnino a controllare gli imam».