L'analisi

«In Italia pochi cambiamenti anche se vincesse la destra»

I politologi Roberto D’Alimonte e Marco Tarchi concordi sul fatto che l’eventuale arrivo a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni non produrrebbe alcuno sconvolgimento negli indirizzi e nelle scelte fondamentali – Opinioni diverse, invece, sul ruolo giocato sin qui da Mario Draghi
Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni sul palco di piazza del Popolo: i leader del centrodestra italiano probabilmente sanno già di avere il successo in tasca alle elezioni di domani. ©AP
Dario Campione
24.09.2022 06:00

Che cosa succederà, in Italia, domani notte? Quale sarà il risultato delle politiche? E ce la farà la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, a diventare la prima donna presidente del consiglio dei ministri?

La campagna elettorale che si è chiusa ieri sera nella Penisola è stata breve e molto diversa da quelle del passato: l’unica, nella storia repubblicana, a essersi dipanata tra le caldissime giornate estive.

Gli ultimi sondaggi, diffusi prima del blocco imposto dalla legge, davano il centrodestra avanti e in grado di conquistare la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento. La quota di indecisi, però, è sempre rimasta molto alta, attorno al 40%. E a intaccare qualche certezza hanno contribuito anche le insistenti voci di un recupero di consensi del Movimento 5 Stelle, soprattutto al Sud, dove lo scontro si è fatto rovente attorno al tema del reddito di cittadinanza.

I due scenari

«Ci sono due scenari realistici - dice al Corriere del Ticino Roberto D’Alimonte, massimo esperto italiano di sistemi elettorali e ordinario di Scienza politica alla LUISS di Roma - Nel primo, molto probabile, il centrodestra vince ottenendo la maggioranza assoluta alla Camera e al Senato; nel secondo, meno probabile ma da non escludere a priori, il centrodestra non arriva alla maggioranza assoluta in una delle due Camere a causa del successo grillino nel Sud del Paese».

L’alleanza di centrodestra è comunque favorita, per quanto «governare, dopo il 25 settembre, sarà tutto tranne che agevole. Anzi: è facile immaginare che non ci sarà un Esecutivo particolarmente stabile. Già adesso vediamo forti tensioni tra Lega e Fratelli d’Italia. Tensioni che non scompariranno e che si accentueranno, soprattutto se la Lega, ipotesi possibile, dovesse avere un risultato molto negativo».

In realtà, fa capire D’Alimonte, nessuno è veramente in grado oggi di dire con certezza che cosa succederà. «Meglio aspettare i risultati, contare i voti dei singoli partiti». Lo scenario immaginato dallo studioso della LUISS, però, è negativo. «Giorgia Meloni - dice - ha pochissima esperienza e poche competenze, e fino a oggi non si è circondata di persone capaci. Sicuramente, se dovesse governare, metterà da parte i toni polemici e baderà molto di più alla sostanza. La politica nei confronti dell’Europa non potrà cambiare perché nessuno vuole perdere i miliardi del Piano Nazionale di Ripresa (PNRR). Ci saranno, forse, impuntature simboliche, identitarie, ma non cambiamenti sostanziali. Certo, occorrerà vedere quale sarà la politica dell’Europa: se dovesse prevalere la linea dell’austerità, questo potrebbe accrescere qualche tensione».

Il nazionalismo di Fratelli d’Italia, e in misura minore della Lega, è a esclusivo uso interno: non comporta né rivendicazioni territoriali, né volontà di disgregazione dell’Unione Europea
Marco Tarchi

Lo spauracchio nazionalista

In modo simile la vede pure Marco Tarchi, ordinario di Scienza politica all’Università di Firenze, da sempre attento osservatore delle posizioni della destra italiana. «Se dovesse vincere la coalizione guidata da Giorgia Meloni nulla accadrebbe di straordinario - dice Tarchi al Corriere del Ticino - Sul terreno delle politiche economiche e della politica estera, le cose rimarrebbero più o meno come sono oggi. Nell’àmbito mediatico, invece, le prerogative del Governo consentiranno forse di ridurre un po’ l’attuale predominio progressista nei programmi di informazione e di intrattenimento della RAI, ma la carenza di personale in grado di sostituire integralmente ed efficacemente conduttori di talk show, comici, capiredattori e così via limiterà anche questa possibilità. Forse ci sarà una certa enfasi sul ruolo dell’Italia in Europa e nel mondo, ma se queste affermazioni si tradurranno in scelte operative, è da vedere».

Anche lo spauracchio di un inedito nazionalismo italiano è, a detta del politologo fiorentino, eccessivo. «Si può immaginare una posizione meno rigida, in seno all’UE, nei confronti di Polonia e Ungheria e più in generale dei Paesi del cosiddetto gruppo di Visegrád, e una minore accondiscendenza alle posizioni di Ursula von der Leyen in alcune materie. Ma il nazionalismo di Fratelli d’Italia, e in misura minore della Lega, è a esclusivo uso interno: non comporta né rivendicazioni territoriali, né volontà di disgregazione dell’Unione Europea».

Lo strappo

Le opinioni dei due analisti divergono su un punto chiave della recente vicenda politica italiana: il ruolo di Mario Draghi. L’uscita di scena dell’ex presidente della Banca Centrale Europea (BCE) è vista da Tarchi come un fatto naturale, non traumatico. «Se le cose andranno come i sondaggi lasciano supporre - dice - vorrà dire che una maggioranza degli elettori italiani non considera Mario Draghi l’uomo migliore prodotto dal Paese e non è soddisfatta della sua azione di governo. Fra democrazia e tecnocrazia c’è una differenza sostanziale. E vedere nel popolo una massa di sprovveduti non mi pare in linea con i presupposti di un regime democratico».

D’Alimonte, invece, legge quanto accaduto come uno strappo, una lacerazione che non ha aiutato l’Italia. « Draghi non è un politico - spiega - e il fatto che sia diventato premier, così come accaduto a Mario Monti prima di lui, è un’anomalia. Positiva, dal mio punto di vista, ma pur sempre un’anomalia. Da nessun’altra parte, infatti, governano i tecnocrati, Era del tutto evidente che con l’avvicinarsi delle elezioni i partiti avrebbero sbandierato i propri progetti e fatto pressioni per ottenere benefìci per i propri elettorati. Draghi però, alla fine, si è stufato e ha dato le dimissioni, anche per mettere i partiti davanti alle loro responsabilità. A quel punto, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini hanno pensato che fosse meglio andare a votare».

Sacrificare Draghi non ha preoccupato più di tanto Lega e Forza Italia, partiti che «sono in flessione, ma sanno di poter tornare al Governo - conclude D’Alimonte - Il Partito Democratico, invece, finirà con ogni probabilità all’opposizione. Non un male, in assoluto, perché ciò consentirà al PD di risolvere alcune importanti questioni sulla sua identità e sulla leadership. I Dem devono decidere che cosa vogliono essere in futuro, anche alla luce del fatto che il Movimento 5 Stelle non è destinato a sparire, come pure molti profetizzavano». Se poi i grillini dovessere arrivare attorno al 30% al Sud, allora la partita elettorale sarà tutta da giocare. L’Italia potrebbe trovarsi di nuovo senza una maggioranza parlamentare, così come avvenne nel 2018.

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