«In sei anni di lavoro negli USA ho attraversato due Americhe»

Andrea Vosti, redattore televisivo dal 2008, è stato corrispondente da Washington per la RSI dal 2013 al 2019. Da questa sua esperienza lavorativa ha tratto il suo recente libro «America First» pubblicato da Armando Dadò. Lo abbiamo intervistato.
Come è nata l’idea di scrivere un libro sugli Stati Uniti?
«L’idea ha cominciato a frullarmi in testa lo scorso anno negli ultimi mesi del mio mandato. Poi è rimasta nel cassetto fino allo scorso giugno. Personalmente i sei anni trascorsi a Washington sono stati un’esperienza eccezionale, e sono stati anni eccezionali anche per l’America con l’era Trump che ha veramente rappresentato un cataclisma a vari livelli. Sono arrivato negli USA quando alla presidenza vi era Obama e quindi di fatto ho attraversato due Americhe. Quella di Obama, che era l’America del sogno americano e poi quella di Trump in cui sono state scardinate le certezze e l’immaginario che gli Stati Uniti rappresentano per molti di noi. Nel mio libro ho raccontato questa esperienza intrecciando il piano della cronaca giornalistica e quello più narrativo e personale con aneddoti e curiosità».
Quale messaggio vuole trasmettere questo libro?
«Non intendevo veicolare un messaggio. Non volevo fare un libro contro Trump; lui non ne esce bene perché la sua è stata una presidenza catastrofica, soprattutto nei modi e nella comunicazione, più che nella sostanza. Certe cose che Trump ha deciso di fare o ha provato a fare sono condivisibili. Come l’affrontare la Cina per la sua scorretezza nei confronti delle regole commerciali; però i modi con cui Trump lo ha fatto sono stati scriteriati e ora si vedono i risultati: Pechino ha occupato il vuoto lasciato da Trump con il recente accordo di libero scambio (che comprende 15 Paesi dell’Asia e del Pacifico ndr)».
Cosa l’ha colpita in particolare nel modo di fare di Donald Trump?
«Nelle elezioni del 2016 c’era un malessere diffuso soprattutto nel nordest industriale e nelle zone più povere dell’America rurale, quindi c’era una forte esigenza di cambiamento. Però la cosa che mi aveva colpito incontrando nel 2016 molti sostenitori di Trump, è che si trattava di persone cortesi e ragionevoli. Mi è sembrato strano il fatto che Trump sia riuscito a ribaltare molti paradigmi che erano parte dell’animo americano, come l’ottimismo, la convinzione che il sogno americano può ancora esistere. Invece il messaggio di Trump, così cupo e rancoroso, stride molto con quello che era il modo di essere di quasi tutti gli americani che ho incontrato. Quello mi aveva scioccato, e ora mi sciocca il fatto che buona parte del Paese abbia ancora sostenuto Trump e che i repubblicani, per opportunismo o cinismo stiano permettendo al presidente uscente di demolire quasi le fondamenta democratiche del Paese».
Il caso Trump ci insegna che con un buon patrimonio, un certo carisma e con la capacità di far passare menzogne per pura verità è facile diventare presidente?
«È successo, quindi è così. Si può parlare male di lui ma Trump è un comunicatore geniale. Riesce a creare delle verità alternative che vengono credute da milioni di americani. C’è qualcosa di diabolico in questa sua capacità, ma riflette quella polarizzazione che va avanti dagli anni Novanta tra i conservatori. Questa polarizzazione associato all’uso dei social media quale principale strumento di informazione, rende quasi impossibile un confronto. Ciascuno si nutre solo di notizie che fortificano le proprie posizioni e le estremizzano. E ciò è pericoloso per una società democratica».
Molti americani leggono i tweet piuttosto che i programmi elettorali. Che ne deduce?
«È un dialogo politico fatto a 140 caratteri, un po’ di più adesso. Nel senso che è lo slogan a pagare, a livello di persuasione dell’elettorato. Se tu per quattro anni delegittimi qualsiasi notizia che contraddice quello che stai dicendo e l’accusi di essere Fake news, vengono a mancare le basi per avere un confronto politico. Trump ha capito meglio di tutti che si poteva diventare presidenti e poi comandare anche a colpi di tweet».
Trump nel bene e nel male ha ottenuto il sostegno di oltre 70 milioni di americani. Secondo lei quale dei suoi messaggi all’elettorato ha avuto maggior successo?
«Sicuramente i due grandi pilastri del suo primo programma politico sono stati il protezionismo economico e commerciale e il senso di minaccia legato all’immigrazione illegale. Poi la promessa di affossare l’Obama care ha fatto molta presa in un Paese dove farsi dettare ordini dal Governo federale non è visto di buon occhio. La parte di americani che non vuole farsi dire come deve vivere e cosa deve fare e quante tasse deve pagare, sicuramente ha visto in Trump una specie di liberatore in cui hanno creduto e continuano a credere».
Rudolph Giuliani, con un glorioso passato da sindaco di New York e da rispettabile procuratore difende Trump con un’aggressività inspiegabile. In un tweet ha usato un hashtag da denuncia penale: #BidenCrimeFamily. Cosa si nasconde dietro questa difesa esagerata di Trump?
«Ricordo il discorso che aveva fatto Giuliani nella convention del 2016 ed era qualcosa di incredibile, mostrava già allora una grande rabbia. Ora in questa fase post voto faccio fatica a capire come una persona come Giuliani che appariva intelligente, per un certo periodo dopo gli attentati alle Torri gemelle sembrava quasi un predestinato alla presidenza, creda in quello che twitta, dice e scrive, perché è di una gravità assoluta. Sono convinto che Trump non farà mai marcia indietro e non riconoscerà mai la sconfitta. Questo perché se vuole monetizzare in termini di consenso politico o anche economico questo suo potere enorme, 72 milioni di persone che lo hanno votato, 80 o 90 milioni di follower su Twitter, lui ha capito che c’è un bacino enorme di americani che sono disposti a seguirlo e sicuramente non uscirà di scena silenziosamente. Sono convinto che continuerà a martellare sul voto rubato e su questo forse lancerà direttamente la sua candidatura per il 2024. Non può arretrare di un centimetro perché non l’ha mai fatto. Anche nella sua carriera imprenditoriale non ha mai riconosciuto gli errori. Quando aveva attaccato John McCain, eroe di guerra, una cosa impensabile in un Paese che venera i suoi veterani, invece di dire ‘ho esagerato un po’, Trump è andato giù ancora più pesante».