Il punto

Israele e la criticata «città umanitaria» di Rafah: ecco che cosa sappiamo

Il ministro della Difesa Israel Katz ha presentato, giorni fa, un piano per trasferire la popolazione palestinese nel sud della Striscia - Chi entrerà nel campo, non potrà lasciarlo: quanti rimarranno fuori, verranno identificati come terroristi di Hamas - Organizzazioni umanitarie ed esperti di diritto: «Crimine contro l'umanità»
©Abdel Kareem Hana
Giacomo Butti
11.07.2025 19:15

È da qualche giorno, ormai, che sui media israeliani e internazionali sta tenendo banco un tema specifico della guerra a Gaza: il piano di Tel Aviv per la creazione di una «città umanitaria» - come è stata definita dal ministro della Difesa Israel Katz - nella quale trasferire tutti i palestinesi della Striscia. Posizionato al confine con l'Egitto, nell'estremità meridionale dell'enclave, il centro è stato presentato come uno strumento per separare la popolazione civile dai membri di Hamas. Ma il progetto ha raccolto, nel corso della settimana, forti critiche. Ecco che cosa sappiamo, sin qui, di questo piano.

Il piano

Nel corso di un briefing con la stampa israeliana andato in scena lunedì, Katz ha spiegato di aver dato ordine all'esercito di elaborare piani per costruire, forse già nei 60 giorni di cessate il fuoco che Israele e Hamas stanno negoziando, una «città umanitaria» sulle rovine di Rafah. Qui dovranno essere ospitati, inizialmente, circa 600.000 palestinesi (quelli attualmente sfollati nell’area di al-Mawasi), e poi l'intera popolazione di Gaza. Annunciato nei giorni in cui il premier Benjamin Netanyahu si trovava all'estero, in visita a Washington, il progetto ha il sostegno del leader di Tel Aviv, secondo quanto appreso dal quotidiano israeliano Haaretz.

Distrutta dall'offensiva israeliana, la città all'estremo sud della Striscia non offre oggi strutture che possano ospitare la popolazione. Secondo quanto riportato dai media israeliani, dunque, il governo intende creare un campo con edifici mobili e tende. Chi accede alla «città umanitaria» dovrà passare attraverso zone di controllo: checkpoint presidiati dai soldati delle Forze di difesa israeliane (IDF) dove avverrà un'identificazione che garantisca la non appartenenza a Hamas. Secondo quanto riferito dal portale online di Israel HaYom, il quotidiano più diffuso di Israele, «quanti rimarranno al di fuori» della città umanitaria saranno invece «identificati come terroristi di Hamas, fornendo una giustificazione legale per la loro eliminazione».

Una volta dentro la «città umanitaria», alla popolazione palestinese non sarà più permesso uscire, ha detto il ministro della Difesa, il quale ha evidenziato tuttavia come l'obiettivo finale di Israele sia incentivare «l'emigrazione volontaria» dalla Striscia. Netanyahu, ha spiegato Katz, sta già guidando gli sforzi per trovare Paesi disposti ad accogliere i palestinesi.

C'entra la GHF?

Non è chiaro, al momento, come sarà gestito il centro. Secondo quanto riportato dalla stampa israeliana, il piano prevede che l'IDF ne assicuri il perimetro, senza tuttavia occuparsi direttamente della sua amministrazione, né della distribuzione degli aiuti alla popolazione palestinese. Nella conferenza stampa, Katz ha dichiarato che Israele sta cercando partner internazionali per gestire la zona. Secondo un recente rapporto pubblicato da Reuters, piani per la costruzione di campi chiamati «aree di transito umanitario», progettate per raggruppare i palestinesi all'interno (ed «eventualmente» all'esterno) della Striscia di Gaza, sono già stati presentati all'amministrazione Trump e discussi alla Casa Bianca. Un progetto da 2 miliardi di dollari che, secondo l'agenzia, porterebbe la firma della criticata Gaza Humanitarian Foundation (GHF), l'organizzazione che - incaricata da Stati Uniti e Israele della distribuzione di aiuti nella Striscia - era già stata accusata da numerose ong di favorire lo spostamento forzato della popolazione palestinese verso il sud dell'enclave, dove si trova la maggior parte dei suoi hub umanitari.

Da settimane al centro di forti critiche internazionali per le violenze registrate nei pressi dei suoi centri, la GHF, la cui sede svizzera è stata recentemente sciolta su decisione dell'Autorità federale di vigilanza sulle fondazioni per «non aver rispettato diversi obblighi legali», ha da parte sua negato un coinvolgimento in qualsiasi piano di trasferimento della popolazione. Collegamenti con gli Stati Uniti e con la criticata Gaza Humanitarian Foundation sono emersi tuttavia anche in un'inchiesta del Financial Times. Il quotidiano britannico ha recentemente rivelato come il Boston Consulting Group (BCG), fra le maggiori società di consulenza al mondo, dopo aver contribuito alla creazione della GHF abbia anche lavorato a un modello finanziario per la ricostruzione postbellica di Gaza: modello che includeva stime dei costi per il trasferimento di centinaia di migliaia di palestinesi dalla Striscia e l'impatto economico di un tale spostamento di massa. 

Le critiche

Il piano del ministro della Difesa israeliano è stato oggetto, nei giorni seguenti la presentazione, di dure critiche da parte di organizzazioni umanitarie ed esperti di diritto internazionale. Philippe Lazzarini, diplomatico svizzero e Commissario generale dell'agenzia ONU per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA) ha condannato il programma come «un altro spostamento di massa della popolazione palestinese di Gaza»: «In questo modo si creerebbero de-facto enormi campi di concentramento al confine con l'Egitto per i palestinesi, sfollati più e più volte nel corso delle generazioni». Simile la presa di posizione dell'organizzazione per i diritti umani Amnesty International, che su X ha sottolineato come «trasferire i palestinesi all'interno di Gaza o deportarli all'esterno contro la loro volontà equivarrebbe al crimine di guerra di trasferimento o deportazione illegale, e se commesso come parte di un attacco diffuso o sistematico contro la popolazione civile, costituirebbe anche un crimine contro l'umanità».

Ma le prese di posizione sono arrivate, forti, anche all'interno di Israele. Sedici esperti israeliani di diritto internazionale e diritto bellico, in una lettera aperta, hanno messo in guardia il ministero della Difesa dal portare avanti il piano, in quanto rappresenterebbe «un ordine palesemente illegale». Nella lettera, citata da Haaretz, gli esperti hanno avvertito che l'attuazione del piano «costituirebbe un crimine di guerra e un crimine contro l'umanità», e «potrebbe essere considerato, a determinate condizioni, un genocidio». «Chiediamo a tutte le parti interessate di ritirarsi pubblicamente dal piano, di rinunciarvi e di astenersi dal metterlo in atto», hanno scritto.