Katalin Karikó: «Senza il vaccino non avreste mai neppure sentito il mio nome»

Il Nobel per la Medicina 2023 ha premiato, con l'ungherese Katalin Karikó e lo statunitense Drew Weissman, la tecnologia che ha reso possibili i primi vaccini contro la pandemia di COVID-19. La notizia di oggi, inevitabilmente, ci riporta indietro. A un'intervista che proprio Karikó concesse al nostro giornale, pubblicata il 2 gennaio 2021. Ve la riproponiamo qui.


In molti oggi ne parlano come di una futura Premio Nobel, ma la strada di Katalin Karikó non è stata lineare come si potrebbe immaginare. Se oggi comunque abbiamo un vaccino contro il coronavirus, ebbene lo dobbiamo in gran parte a una sua ossessione, alla sua ostinazione.
«Sono così felice che ho quasi paura di morire». Eppure erano state proprio queste le parole da lei pronunciate, a caldo, di fronte alle prime recenti chiamate ricevute dai media. Ricercatrice ricercatissima, all’improvviso. Dicevamo della sua voglia di vivere. Una voglia che emerge anche nel suo modo di comunicare. L’abbiamo incontrata via Skype per una lunga chiacchierata. Ci ha risposto nel suo stile, allegramente spettinato, un fiume in piena di parole che cozza con la sua natura di scienziata. Lei stessa ammette: «Non so se conoscete direttamente degli scienziati. Non sono generalmente alla ricerca di soldi e fama, sono spesso molto riservati, premurosi, a volte un po’ strani, ma solitamente brave persone, non abituate alle prime pagine». E poi? «E poi guardiamo avanti. La scienza non si dovrebbe mai voltare indietro. Raramente si vedono d’altronde pubblicazioni che parlano di traguardi già tagliati in passato. Noi guardiamo sempre avanti. Il passato è il passato. Io stessa sono abituata a pensare a quello che ancora posso fare, non a quanto ottenuto».
L’mRNA nella quotidianità
Sono i media a guardare in questo caso al passato, per ritrovare tracce di una storia personale unica, trasformatasi in un bene comune. E questo solo grazie al suo lavoro, ai suoi studi, alla sua tenacia. Ce ne accorgiamo oggi, noi, ma la scienza già ci era arrivata. Le discussioni attorno all’RNA messaggero, per quanto complesse, sono entrate nella quotidianità. Nel mondo scientifico non sono mica nate ieri. Tutto il contrario. La stessa Karikó ci dice: «La pandemia ha portato il tema in superficie, ma gli studi erano molto avanzati in vari campi, basti pensare semplicemente alla lotta all’influenza». Insomma, al centro di tutto c’è l’RNA messaggero - quello che spesso da qualche settimana a questa parte vediamo nella sua formula abbreviata: mRNA -, la molecola che si occupa di codificare e portare le istruzioni nelle cellule, in modo da spingerle a produrre proteine. I vaccini di Pfizer-BioNTech - Karikó è vicepresidente senior di BioNTech - e di Moderna si basano proprio su questa molecola. Ma, attenzione, mai nessun vaccino basato sull’mRNA era stato autorizzato in precedenza per un impiego su larga scala. Da qui in fondo sono nate molte delle domande attorno alla sicurezza di tali prodotti. Per farla breve, l’idea - ossessiva - di Karikó era di utilizzare l’mRNA per «convincere» le cellule a produrre proteine a piacere, in questo caso un antigene, che sarà poi preso a carico dal nostro sistema immunitario, che produce anticorpi. Già, ma la strada che ha portato tale idea a una sua realizzazione pratica - e alla rispettiva fama della dottoressa - è stata lunga, diremmo tortuosa.
Mille dollari nell’orsacchiotto
Classe 1955, Katalin Karikó è nata e cresciuta in un piccolo paese ungherese, sviluppando sin da giovane un profondo interesse per la biologia. Un interesse che ha riempito i suoi studi, a Szeged, e che si è fatto professione, dapprima presso il locale centro di ricerca e quindi in America. Già, l’America, all’epoca lontanissima. Era il 1985, lei aveva trent’anni e una figlia di due, un marito ingegnere. Il Muro non era ancora stato abbattuto. Di fronte all’invito giunto dalla Temple University di Philadelphia, non ha però resistito: raggiungere gli Stati Uniti avrebbe rappresentato un’opportunità unica per spingere oltre la sua ossessione. Ha quindi venduto la sua automobile sul mercato nero e, con il denaro contante (1.200 dollari) nascosto in un orsacchiotto della figlia, ha raggiunto la costa Est degli States. A Philadelphia non conosceva nessuno, aveva ancora qualche problema di lingua. Ma ha preso la rincorsa. Oggi le facciamo presente, di fronte alla sua ritrosia, che raccontare la storia dello scienziato alla base di una determinata scoperta è un modo a nostro avviso per umanizzare la scienza, per abbattere altri muri, quelli tra conoscenza e naturale ignoranza della materia. Insomma, il vaccino, questo vaccino, rappresenta il nostro presente ma soprattutto il futuro della società in cui viviamo. Lei stessa comunque si racconta, ci racconta della sua infanzia. «Sono cresciuta in una casa senza acqua corrente, televisore e frigorifero. Questo per i primi dieci anni della mia vita. Non sapevo neppure ci potesse essere un altro modo di vivere. Pensavo che tutti vivessero così».
Punti di stallo e ripartenze
Dicevamo della sua rincorsa. Ecco, nasce da lì. «Una volta all’università, mi resi conto di essere piuttosto indietro negli studi, a cominciare proprio dalle lingue, in particolare l’inglese. A 19 anni ho quindi iniziato a imparare qualche parola, qualche espressione. E lo stesso vale per la chimica. Molti miei compagni già l’avevano studiata nelle rispettive scuole, io no. Cercavo costantemente di mettermi in pari con gli altri. Ero indietro, ma mi concentrai unicamente su ciò che dovevo fare, non nel pensare al perché fossi indietro. I miei genitori avevano fatto quel che avevano potuto. Inutile guardare al passato. Ricordo che passai un’intera estate sui libri di inglese: alla ripresa, ero la migliore della classe. Ma non mi sono mai concentrata sugli altri, né allora né oggi. Lo stesso vale nell’ambito della ricerca, della scienza, e quando non si fanno progressi la domanda da porsi è: cosa devo fare allora, cosa devo cambiare? Perché per forza di cose se non si avanza è perché bisogna fare qualcosa di differente». La dottoressa Karikó prosegue nella lettura del suo diario dei ricordi. «Ero al liceo, lessi un libro ungherese e, per la prima volta, ricordo, ritrovai la parola “stress” utilizzata per descrivere lo stato emotivo di un personaggio. Ebbene, mi soffermai su quel libro. Mi segnò. L’autore sottolineava che spesso la gente perde tempo a chiedersi “ma se...?” e descriveva questa attitudine come un comportamento da evitare. Non bisogna soffermarsi sui “ma se...” - scriveva -, su ciò che pensano o fanno gli altri. Non puoi cambiarli. Piuttosto, di fronte a un dubbio, a un problema, bisogna pensare alle possibili soluzioni. Ogni discussione nelle nostre vite deve concludersi con un’altra domanda: “D’accordo, qual è la soluzione?”. Ho iniziato quindi a pensare che, quando la gente non capisce, è perché forse non sono riuscita a spiegarmi abbastanza bene. E allora devo spiegarmi meglio, devo fare più esperimenti e acquisire maggiore sicurezza. Se incanalo l’energia verso ciò che posso fare, allora non perderò tempo in pensieri inutili. Avevo sedici anni, ma è un concetto che ho sempre tenuto presente». Si riferisce alla sua storia accademica, alla storia dei suoi studi, tra tanti momenti di stallo, discese e risalite.


La sua sfida sembrava persa
Cruciale proprio la materia delle sue ricerche: l’mRNA. Si torna lì. Si torna a un ostacolo che a un certo punto pareva divenuto insormontabile. E la carriera di Katalin Karikó si era quindi incagliata. L’organismo umano infatti ha vari sistemi di controllo per evitare che, dall’esterno, giungano informazioni potenzialmente dannose alle cellule. E tali sistemi di controllo producono quindi le relative difese. Ed ecco forti reazioni infiammatorie e nuovi potenziali rischi. L’ossessione di Karikó nasce quindi da lì, dalla ricerca di una soluzione a questo problema, che permettesse alle molecole artificiali di essere accolte, accettate e non rigettate, dall’organismo. Per molti suoi colleghi e superiori, una sfida persa, impossibile da vincere. Tanti i rifiuti accumulati dalla dottoressa, tanti gli ultimatum ricevuti, troppi i gradini scesi. A un certo punto, i vertici dell’Università della Pennsylvania la misero di fronte a una scelta: se vuoi continuare a lavorare con l’mRNA, devi lasciare la tua posizione in facoltà (rinunciando a una fetta del salario). Quella stessa settimana - con il marito che era tornato in Ungheria per un problema con il visto - le era stato diagnosticato un cancro. Ma decise di accettare il declassamento, pur di proseguire nella strada da lei stessa segnata. E un giorno incontrò Drew Weissman, un immunologo, biochimico di formazione. Un incontro decisivo. Era il 1997. Weissman, ci racconta la stessa Karikó «stava lavorando a un vaccino per l’HIV e, come me, aveva intravisto nell’mRNA una possibile soluzione». Come una scintilla prima di un’esplosione, avvenuta otto anni dopo, nel 2005, con la pubblicazione di uno studio allora giudicato rivoluzionario. «La soluzione: assemblare l’RNA modificato sostituendo però l’uridina - uno dei composti chimici che costituiscono i filamenti di mRNA - con la pseudouridina, una variante tollerata dall’organismo». Un inganno a fin di bene.
La gente vuole capire
Un inganno che ora è necessario - e che il nostro organismo non può fare altro che accettare - per combattere il coronavirus. Quell’intuizione si è fatta vaccino contro il SARS-CoV-2. Una soddisfazione enorme per Katalin Karikó. «Sì, ma ora è il caso di continuare ad accelerare, perché il ritmo mi sembra troppo lento. Da quando ho iniziato a rispondere alla sua domanda, in questi trenta secondi, venti persone sono morte a causa del virus. È terribile. Per cui bisogna correre. Negli Stati Uniti non c’è la reticenza ai vaccini di cui si parla in Europa. Certo, qualcuno obietta, ma semplicemente perché non capisce. Prima è stato detto loro che il virus non esisteva, poi il contrario, sono confusi. E ora in effetti qualcuno crede ancora non esista il virus e che la Terra sia piatta», sorride amara. «La gente vuole delle spiegazioni. E qui entrano in gioco i media, voi, chiamati a semplificare concetti che in termini scientifici risulterebbero troppo complicati. Il nostro ruolo è un altro, e non va vissuto sotto i riflettori, inseguendo la fama e ricchi compensi. La scienza fa passi da gigante, ma di pari passo andrebbe nutrita la conoscenza della popolazione».