La Cisgiordania ora è una bomba a orologeria

Una pentola a pressione messa da ore sul fuoco e pronta a scoppiare. Questa è l’impressione che si avverte girando per i territori palestinesi, parlando con i locali, leggendo le cronache. Qualche giorno fa un leader di Hamas ha chiamato a raccolta tutti i palestinesi per una manifestazione, prevista stamattina nei Territori. Non che ci voglia molto ad aizzarli: dall’inizio dell’anno, infatti, sono oltre 200 le vittime palestinesi, la maggior parte registrate negli scontri tra l’esercito israeliano e i miliziani palestinesi o i civili armati. Jenin e Nablus hanno rappresentato i campi di battaglia più cruenti, con il primo, in particolare il campo profughi della città più settentrionale tra le grandi dei territori palestinesi, a essere il teatro degli scontri più duri.
Il risentimento
Qui i continui, quasi quotidiani raid dell’esercito israeliano in cerca di fiancheggiatori e terroristi appartenenti ai vari gruppi combattenti, hanno portato un innalzamento costante della tensione e l’accrescimento del risentimento anti israeliano. Facile quindi che stamattina in molti rispondano all’appello di Hamas. L’apertura di un fronte interno così importante, rappresenta un grande pericolo per la tenuta bellica di Israele, che è impegnato ad ammassare truppe al sud e a tenere a bada Siria e Libano a nord. Proprio questi due fronti già aperti, potrebbero spingere molti a rispondere alla chiamata alle armi di Hamas nei territori palestinesi, dove non si aspetta altro che attaccare Israele. Come tra giugno e luglio, quando la Cisgiordania, Jenin in particolare, è diventata un teatro di battaglia come Gaza.
Il malcontento, soprattutto dei giovani che si sentono oppressi e occupati da Israele, abbandonati dall’Autorità Nazionale Palestinese, senza prospettive, senza vie d’uscita, serpeggia e aumenta. Hamas ha quindi gioco facile a radicalizzare questi ragazzi per i quali la lotta armata è l’unica via possibile per l’indipendenza.
Gruppi molto temuti
Per l’esercito israeliano, in queste città, nei loro campi profughi, nei vicoli dei centri storici, si annidano quelli che Israele riconosce come propri nemici. Militanti di gruppi che abbiamo imparato conoscere da tempo: da Hamas, al Jihad Islamico Palestinese (Pij) e al suo famigerato Saraya al Quds e al Battaglione Jenin; dalle Brigate Balata alla Brigata Nablus, dalla Brigata Yabad all’ultima più temuta, la Fossa dei Leoni. Un panorama del terrore che il governo israeliano è deciso ad annientare a tutti costi dopo gli orrori degli scorsi giorni. Importa poco se anche minorenni sono costretti ad imbracciare i fucili per difendere le loro case, se i proiettili e i colpi sparati durante le battaglie uccidono civili di ogni età e sesso. Le operazioni che l’esercito porta quasi quotidianamente e gli scontri anche cruenti e feroci con i locali, mostrano l’interesse israeliano a chiudere il capitolo. Ma bisognerà comunque fare i conti con l’accresciuta potenza militare dei gruppi palestinesi che, non solo Hamas, secondo gli analisti, sono foraggiati e istruiti dall’Iran. Non a caso, spesso i vertici di Hamas e Pij sono a Teheran o ne incontrano i capi in Siria o Libano. Alle armi «Carlo», le pistole mitragliatrici artigianali autocostruite in molti luoghi della Cisgiordania, ampiamente diffuse, si sono aggiunti i fucili d’assalto M4, M16, CAR-15. Non sono pochi quelli che possiedono pistole, come M18 e P-320. Armi che arrivano dall’Iran attraverso Siria, Libano e, soprattutto Giordania, portate a pezzi per poi essere assemblate nei piccoli negozi delle cittadine palestinesi e stipate soprattutto nei sottoscala e depositi sotterranei del centro delle città di Nablus e Jenin. Non solo armi leggere. Il Pij, che ha contribuito al massacro di sabato nel sud di Israele, ha un buon arsenale di armi pesanti, dispiegato principalmente a Gaza, ma con alcune basi in Cisgiordania. In operazioni militari israeliane, sono state distrutte installazioni per la fabbricazione e il lancio di razzi non più da Gaza, ma dal cuore della Samaria verso le città israeliane.
L’arma più potente
L’arma più potente di questi gruppi, è sicuramente la propaganda. Foto dei «martiri» campeggiano nelle città e questi gruppi, Hamas in particolare, hanno oramai il controllo delle università palestinesi e sono usciti vincitori dalle elezioni studentesche. Quando l’esercito ha lasciato Jenin dopo quasi due giorni di battaglia la scorsa estate, i palestinesi hanno attaccato l’ufficio locale delle forze di sicurezza, considerate colluse con l’occupante, così come il governo di Ramallah, i cui rappresentanti locali sono stati cacciati. Mentre prima sui social si trovavano immagini degli attacchi in auto contro i check point o anche di ragazzini con in mano la «Carlo», oggi i video mostrano militanti armati fino ai denti con frasi che incitano all’attacco sottolineando la fragilità israeliana che, secondo i media iraniani, dipende dal momento difficile politico israeliano. Sui social palestinesi ci sono video e foto di miliziani con pezzi di veicoli militari distrutti come trofeo di guerra, gente che canta e danza sulle macerie del campo profughi e di Gaza in segno di vittoria, immagini dei «martiri» agli angoli delle strade e sui social, immagini degli ostaggi. Dopotutto, dicono, se Israele ha usato elicotteri, droni e molte forze di terra, significa ci teme. Ed è per questo che si teme lo scoppio della pentola a pressione, sfruttando il momento di non lucidità israeliana e il grande impegno di uomini e mezzi verso Gaza.