La democrazia in Kosovo passa anche dal lavoro delle api

«I problemi del Kosovo sono tanti ma il principale è rappresentato dai serbi che vivono nel Nord del Paese». Bejtullah Mjekiqi è un uomo tranquillo. Il suo sguardo è placido come le api che ronzano attorno alle arnie che ha posizionato nel suo giardino nei dintorni di Obilic, periferia di Pristina.
Mjekiqi è un uomo tranquillo eppure le sue parole sono forti. Perché vanno a precisare una volta di più cosa è oggi il Kosovo a 25 anni dalla fine della guerra e dall’intervento della NATO. Un Paese che sta tentando di risollevarsi ma che è ancora lacerato dalle divisioni etniche, dalla contemporanea presenza di cittadini di origine albanese e cittadini di origine serba e da mal di pancia non ancora assopiti. Nonostante la guerra sia appunto terminata da 25 anni. Mjekiqi parla ai militari del contingente svizzero in Kosovo, meglio, con i membri dell’équipe di Liaison and Monitoring della Swisscoy. Militari che sono venuti a trovarlo perché Mjekiqi è municipale a Obilic e tra le sue responsabilità c’è soprattutto la gestione del settore primario, l’agricoltura.
I contatti con la popolazione
Non è raro che i membri delle squadre di Liason and Monitoring Team parlino e incontrino le autorità politiche locali così come l’intera popolazione, dal cittadino comune al sindaco, dal poliziotto al prete ortodosso. Anzi, è il contrario. Succede tutti i giorni. Da anni. Perché tra i loro compiti c’è anche quello di intrattenere i contatti con la popolazione, tenere d’occhio il territorio, sorvegliare che tutto funzioni, parlare, appunto con le istituzioni e che la pace continui a esistere, così come prevede l’ONU che amministra il Paese anche grazie alla presenza della KFOR, la forza militare internazionale guidata dalla NATO a favore della quale prestano servizio anche circa 200 soldati svizzeri per contingente ogni anno. Un contingente piccolo, quello svizzero rispetto agli oltre 3mila soldati appartenenti a 27 Nazioni differenti che dal 1999 a oggi aiutano il Kosovo a rimanere un Paese stabile nonostante appunto gli attriti e le differenze.
La guerra che nel biennio 1998-1999 ha fatto migliaia di vittime, da una parte e dall’altra degli schieramenti, ha scatenato l’intervento della NATO e ha provocato una diaspora tra la popolazione albanese scappata soprattutto in Germania e in Svizzera, è insomma lontana ma nonostante tutto non ancora completamente dimenticata.
I militari annotano
La delusione di Mjekiqi che vede il principale problema del suo Paese nella presenza dei cittadini kosovari di origine serba è lì a dimostrarlo. Perché Mjekiqi è pacifico e ha anche una fotografia dell’ex presidente Rugova in salotto. Inoltre, uno dei suoi due figli vive in Svizzera da sei anni e quando parla con i militari rossocrociati li ringrazia e spende parole al miele per la Confederazione. Certo non tutti i problemi stanno nella presenza serba. Mjekiqi lo sa benissimo. «Negli ultimi 6 anni il Kosovo ha fatto passi da gigante a livello economico - racconta sorseggiando uno dei tanti tè che offre anche ai militari della Swisscoy che accoglie in salotto -. A livello generale c’è anche più lavoro e se vogliamo davvero guardare la radice del problema ecco allora dobbiamo puntare il dito sulla nostra classe politica».
Mjekiqi è un uomo tranquillo. Ha una bella casa e una famiglia felice. La nipotina ride e scherza con sua mamma che si dà da fare per fare sentire gli ospiti a loro agio. Eppure ha posizioni molto critiche verso quella parte di popolazione che non è di etnia albanese. «Un altro problema è la criminalità che al Nord del Paese trova protezione e impunità. Inoltre i serbi del Nord hanno spesso più diritti di chi vive nel resto del Kosovo». Una critica continua. Che Mjekiqi solleva in modo pacifico e che i militari svizzeri annotano. Perché poi dovranno comunicarla alla KFOR che raccoglie e analizza le sollecitazioni di tutti gli eserciti impegnati sul terreno. Garantire la pace. È questo lo scopo che viene portato avanti cercando di proteggere tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro etnia.
Il peso dell’agricoltura
Ma non si tratta solo di registrare gli attacchi e le critiche nei confronti di quella o quell’altra comunità. I militari svizzeri sono attenti soprattutto quando Mjekiqi parla di agricoltura. Perché un Paese per crescere ha bisogno anche di essere efficiente e di uno Stato che funzioni. Ecco allora che quando Mjekiqi parla della produzione di miele i taccuini dei militari si aprono subito. «Fare miele a Oblic è difficoltoso - sostiene l’agricoltore - mio zio abita nei dintorni di una fabbrica di olio che ha attorno campi di colza che facilitano l’arrivo di api e insetti. Se anche qui ci fossero fabbriche di olio sarebbe insomma meglio». Sembra una sciocchezza, ma non lo è. L’appunto viene annotato dai soldati e se arriveranno altre sollecitazioni simili non è detto che un giorno la proposta di Mjekiqi non possa arrivare in qualche modo sul tavolo dei politici locali.
La democrazia in Kosovo funziona anche così. Per intermediazione. Perché 25 anni dopo la guerra e l’arrivo dei soldati della NATO e della Swisscoy c’è ancora molto da fare in questo angolo di Europa. Che con i suoi oltre 1.600 chilometri di distanza da Lugano può sembrare lontano. Ma così lontano non è. Soprattutto dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Che ha cambiato la geopolitica e gli scacchieri internazionali.