Il caso

La diatriba su Spotify e disinformazione si gioca sulle «zone grigie»

La piattaforma di streaming musicale finisce nella bufera per ospitare un podcast «no-vax» – Neil Young ha preso posizione contro questa scelta e ha richiesto che la sua musica fosse ritirata – Ma quali sono le responsabilità e le conseguenze che rischia il colosso della musica in streaming? Ne abbiamo parlato con Antonio Nucci, dottorando dell’Istituto di Media e Giornalismo dell’Università della Svizzera italiana
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Irene Solari
31.01.2022 20:17

È un vero e proprio polverone, anzi, un uragano quello che si sta abbattendo in questi giorni su Spotify, colosso svedese della musica in streaming. La controversia è partita da Neil Young che si è scagliato contro un podcast, «The Joe Rogan Experience», dell’omonimo commentatore televisivo e comico che sarebbe responsabile di diffondere sulla piattaforma delle informazioni false, fuorvianti e potenzialmente pericolose sul coronavirus e sui vaccini. Young, per l’indignazione, ha chiesto alla piattaforma di rimuovere la propria musica: «O Rogan o Young, non entrambi».

L’apparente tolleranza dimostrata dalla piattaforma nei confronti di Rogan ha creato parecchio malcontento tra diversi altri grandi nomi della musica. Che hanno chiesto di ritirare la loro produzione artistica da Spotify: Neil Young è stato seguito da Joni Mitchell. Ultimo, in ordine di tempo, il chitarrista Nils Lofgren.

Davanti a questa fuga di artisti e alla presa di posizione di altri, Spotify ha deciso di correre ai ripari, specificando quali sono le linee guida che seguiranno per frenare le informazioni fuorvianti sul coronavirus. Tra queste sarà inserito una sorta di disclaimer ogni volta che si tratterà l’argomento coronavirus, come ha recentemente dichiarato la piattaforma. Il CEO Daniel Ek ha dichiarato: «Le reazioni delle ultime settimane dimostrano che dobbiamo fare di più per dare un accesso vasto ed equilibrato a informazioni ampiamente accettate dalla comunità medica, in modo che ci guidino in questi momenti senza precedenti». E una reazione è arrivata anche dallo stesso Rogan, che ha dichiarato di volersi impegnare per essere più equilibrato.

Ma il caso ha fatto parecchio discutere tanto che, oltre a diversi medici e specialisti, è intervenuto a favore di Young anche il direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ringraziandolo per la sua battaglia contro «le inaccuratezze e la disinformazione che circolano sulla COVID». Il capo dell’Organizzazione mondiale della sanità ha anche sottolineato che «il settore pubblico e il privato, soprattutto le piattaforme social, i media e gli individui hanno tutti un ruolo per arrivare alla fine della pandemia». Non da ultima si è mossa anche Apple Music che, dal canto suo, si è autoproclamata «la nuova casa di Neil Young», un modo anche per fare colpo sui fan della rockstar che potrebbero seguire il loro idolo e quindi boicottare Spotify.

Per capire meglio quali potrebbero essere le conseguenze che il colosso della musica rischia di dover affrontare, abbiamo chiesto un parere ad Antonio Nucci, dottorando dell’Istituto di Media e Giornalismo dell’Università della Svizzera italiana.

Innanzitutto, che cosa ne pensa di tutta questa vicenda? «Questo caso è l’ultimo di una lunga lista di problemi legati all’informazione e alla diffusione dei contenuti» spiega Nucci. «Il tema della disinformazione COVID sta creando molte difficoltà ai sistemi sanitari in tutto il mondo e le piattaforme di diffusione di contenuti, quali Spotify, ma anche i social media, ne sono co-responsabili». Ma non finisce qui. Questo meccanismo è dovuto alla sfiducia, in generale, verso il mondo dell’informazione: «È anche l’ultimo sintomo della mancanza di fiducia che il grande pubblico ha nei confronti dei media tradizionali e della cosiddetta “bolla mediatica”: vado a cercare le informazioni con cui sono d’accordo, non necessariamente quelle accurate».

Il tema della disinformazione COVID sta creando molte difficoltà ai sistemi sanitari in tutto il mondo e le piattaforme di diffusione di contenuti, quali Spotify, ma anche i social media, ne sono co-responsabili
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Spotify, una piattaforma conosciuta mondialmente, sta rischiando un pesante danno d’immagine per la tolleranza mostrata nei confronti della disinformazione. Ma quale sarà la traccia lasciata da questa vicenda sul colosso dello streaming? «È possibile che una parte del pubblico guardi l’azienda svedese con occhi diversi». E ancora: «Sicuramente, l’attenzione mondiale derivata dal caso di Joe Rogan e Neil Young ha portato ad una crisi di immagine». Ma, secondo Nucci, è giusto anche concentrarsi su quale sia il fine che i clienti cercano in uno spazio di condivisione streaming: «Bisogna pensare a quale sia lo scopo finale che porta i clienti ad iscriversi alla piattaforma: ascoltare musica. Se i clienti decideranno di ignorare il contenuto in discussione e di continuare a usare la piattaforma per ascoltare musica, molto probabilmente l’azienda non avrà, nel medio-lungo termine, un danno. Se invece il pubblico, i cantanti stessi o altri produttori di contenuto, come hanno già fatto alcuni, decideranno di abbandonare la piattaforma in segno di protesta, il danno per Spotify diventerà molto grande, obbligando l’azienda a correre ai ripari».

Le responsabilità legali
E sul rischio che Spotify possa vedersi riconosciute delle responsabilità – anche legali – a seguito di questa vicenda, Nucci risponde che sull’argomento c’è molta incertezza: «Il tema della disinformazione, in particolare quella sanitaria o politica, si trova ancora in un’area legale “grigia”». È importante fare una divisione generale, ribadisce Nucci: «Innanzitutto è necessario stabilire se queste piattaforme siano o meno degli editori di contenuti o se siano, invece, solo dei “contenitori”». Una distinzione importante per capire le questioni di responsabilità: «Se da una parte, infatti, Spotify permette ai propri utenti di ascoltare il prodotto, diventando quindi l’unica forma di accesso ad esso, dall’altra non si considera un editore e quindi non ritiene di avere diretta responsabilità su quello che viene pubblicato». E, secondo Nucci, questa non è una questione nuova. «L’abbiamo visto con la disinformazione su Twitter o su Facebook, sia con la pandemia sia con le elezioni presidenziali americane del 2020. Un quotidiano, un telegiornale, se pubblica qualcosa di falso o sbagliato, è direttamente responsabile delle conseguenze; perché una piattaforma come Spotify o Twitter o Facebook non dovrebbe esserlo?».

Se da una parte Spotify permette ai propri utenti di ascoltare il prodotto, diventando quindi l’unica forma di accesso ad esso, dall’altra, non si considera un editore e quindi non ritiene di avere diretta responsabilità su quello che viene pubblicato

Sul controllo dei contenuti
Ma qual è la regolamentazione in vigore su Spotify riguardo al controllo dei contenuti? Che differenza c’è rispetto ad altre piattaforme streaming o a YouTube? Si tratta di un voler giocare sulle “zone grigie” che – di fatto – permette la disinformazione, conclude Nucci. «Nell’ultimo comunicato stampa che Spotify ha rilasciato qualche giorno fa, l’azienda ha affermato di aver sempre applicato, senza distinzioni, il proprio regolamento. Quest’ultimo è stato reso pubblico di recente e al suo interno contiene numerose “zone grigie”: non si può dire che i vaccini sono stati sviluppati per uccidere le persone, ma si può dire che possono causare la morte del paziente. Un gioco di parole, sottile, che permette alla disinformazione di essere divulgata senza apparenti conseguenze. Questo è sfortunatamente solo l’ultimo caso di un nutrito elenco di piattaforme che, per mantenere attivo il proprio pubblico, decidono di non schierarsi e di dare adito a dubbi infondati e pericolosi. Altre piattaforme hanno implementato dei sistemi di “flag”, cioè la possibilità per il pubblico di indicare un contenuto come falso e conseguentemente chiedere all’azienda di eliminarlo. Bisogna però sempre guardare il caso specifico perché la scelta, alla fine, ricade sempre sulla piattaforma e quindi sul regolamento più o meno trasparente».