La guerra «giusta» di Benjamin Netanyahu

«Questo è un pericolo chiaro e attuale per la sopravvivenza stessa di Israele». È racchiusa in questa frase, detta dal premier Netanyahu e riferita al programma nucleare iraniano, l’essenza stessa della guerra d’Israele a Teheran.
Una guerra esistenziale e sopravvivenza né è la parola chiave. Quella di questi giorni per Israele contro Teheran è una guerra per consentire la sopravvivenza stessa dello Stato ebraico.
Dopotutto, da Teheran non hanno mai fatto mistero che gradirebbero un Medio Oriente senza ebrei. In un’area sunnita, gli sciiti iraniani cercano di dettare legge e hanno anche coinvolto sunniti contro il nemico comune, Israele. Ed è per questo che lo stato ebraico vuole colpire la «testa del polpo» che, attraverso i suoi tentacoli (i proxy come Hamas, Hezbollah, Houthi, milizie siriane e irachene), ha attaccato Israele da anni e in modo particolare dal sette ottobre di due anni fa, minando alla stessa esistenza dello Stato Ebraico, dimostrata anche dalle dichiarazioni dei leader di questi gruppi, dai loro documenti ufficiali, dalle loro azioni.
L'obiettivo principale
Teheran è sempre stato l’obiettivo principale. Anche quando Israele decapitava Hamas, a Gaza e nella stessa capitale iraniana, l’obiettivo era il regime degli Ayatollah. Quando si accaniva contro Hezbollah, l’obiettivo era l’Iran. Quando ha operato in Siria, aveva nel mirino Teheran.
Azioni che un certo cambiamento nella regione lo hanno portato. Come Israele è stato isolato sulla scena internazionale a causa della condotta nella guerra a Gaza, così lo Stato Ebraico ha isolato Teheran. In Libano c’è stato un cambiamento radicale tanto che Hezbollah oramai si occupa solo di politica. Venerdì, quando è cominciata l’offensiva a Teheran e l'Iran ha mandato la prima salva di missili sullo Stato Ebraico, le milizie sciite libanesi hanno detto che non avrebbero preso parte alla guerra, non avrebbero attaccato Israele. Ed è un grande risultato se si considera che proprio Hezbollah rappresentava la testa di ponte per Teheran nella regione, più dei sunniti di Hamas. Stesso ragionamento sulla Siria, dove l’attuale governo dell’ex (non ancora tanto ex) jihadista al Jolani non si è mai sentito vicino a Teheran tant'è che cerca accordi con lo Stato Ebraico.
Al regime degli Ayatollah restano fedeli solo gli Houthi yemeniti. Che, però, pare siano stati decapitati in attacchi israeliani sabato.
Senza poi contare che i possenti raid israeliani, condotti in una operazione che è stata progettata per mesi se non anni, hanno già messo in ginocchio il regime, andando a colpire le sue capacità militari non solo con la decimazione della leadership (in un colpo solo sono stati fatti fuori il capo dell’esercito e quello delle guardie rivoluzionarie), ma anche minando le capacità nucleari con danni (anche se non così intensi) alle centrali. Per tacere dei colpi alle raffinerie di gas e ai depositi di carburante.
Ma l'Iran, dunque, come sta?
È questo il vero problema per il regime. I missili e la difesa aerea erano stati già duramente colpiti ad aprile e ottobre dell’anno scorso. Ora Israele ha puntato alla leadership e all’economia colpendo la fonte di guadagno sicura. Per un Paese sottoposto a notevoli sanzioni economiche, significa accrescere il malcontento sociale tra i civili sperando in una loro sollevazione. Di difficile attuazione, considerando quanto il regime sia ramificato nel Paese.
Ma Netanyahu ci crede, infatti si è rivolto più volte ai «cittadini persiani» affinché si ribellino. Lo fa anche dimostrando che il Mossad riesce a colpire i gangli istituzionali dall’interno stesso dell’Iran. Lo aveva già fatto, del resto, quando uccise con un mezzo di precisione l’ex leader di Hamas ospite in una guest house dei Pasdaran a Teheran. Lo ha fatto in questi giorni lanciando attacchi con droni e autobomba all’interno del paese.
Un fronte tutto fuorché nuovo
Questo con l’Iran non è un fronte nuovo di guerra, ma quello mai chiuso. E anche su questo Netanyahu basa la sua azione di aggregazione degli israeliani. Se sulla gestione della guerra a Gaza i mal di pancia nel Paese sono notevoli, sia dal punto di vista politico sia sociale, quella al regime iraniano viene vista invece come una guerra giusta, appunto, di sopravvivenza. In molti discorsi si avverte la preoccupazione, visto che missili balistici iraniani erano già arrivati due volte nel corso di questi due anni e tra venerdì e sabato hanno anche fatto vittime. Preoccupazione legata al fatto che Israele non sarebbe più esistito se quei missili avessero trasportato testate nucleari.
Proprio su questo sentimento fa leva il premier, che coalizza consenso. Un consenso che potrebbe diventare anche internazionale, riprendendo quello perduto per la gestione del conflitto a Gaza. Netanyahu ha assunto il ruolo di chi agisce anche per gli altri: fermare Teheran per il bene del mondo intero, per farla breve.
L’Iran, anche se ha inferto colpi importanti (gli undici morti in verità pesano anche sul governo israeliano, visto che molti di questi non avevano rifugi o non ci sono andati), ha una potenza di fuoco ridotta. In due giorni, in almeno sette salve, ha lanciato meno missili che in un solo attacco la volta scorsa. Ma il polpo deve comunque dimostrare ai suoi tentacoli di avere ancora capacità.
In tutto questo, Trump rappresenta la via d’uscita, la back door della situazione. Impossibile e impensabile che gli USAnon abbiano quanto meno fornito assistenza di intelligence a Israele per questi attacchi. L’ultima volta parteciparono attivamente alle intercettazioni. Ora Trump vuole fornire la possibilità a Teheran di tornare sui suoi passi e negoziare. Deve essere lui a pacificare il Medio Oriente, non certo Putin.