L'analisi

La guerra in Medio Oriente spacca le piazze: ecco perché l’Europa torna a lacerarsi

Il sociologo delle migrazioni Maurizio Ambrosini spiega le ragioni storiche e sociali dei movimenti filo-palestinesi del Vecchio Continente - Il peso delle politiche nazionalistiche e la mancata integrazione dei migranti musulmani - A Parigi è scontro sull’islamo-gauchisme
©ANDY RAIN
Dario Campione
13.11.2023 06:00

L’Europa delle piazze, dei campus universitari e delle scuole superiori, l’Europa dei giovani e quella più orientata a sinistra si mette in marcia un po’ ovunque per la Palestina. Sabato, a Londra, una manifestazione imponente - come non se ne vedevano dai tempi della Brexit - ha invaso il centro della città, con la polizia che ha arrestato oltre 120 persone nel tentativo di impedire che un corteo di militanti di estrema destra venisse a contatto con il raduno principale.

Le strade si riempiono e l’aria si fa spesso satura di slogan contro Israele, incendiando il clima politico.

I partiti conservatori accusano apertamente i progressisti di reggere il gioco di Hamas e il dibattito diventa scontro, la discussione degenera nel diverbio.

La guerra in Medio Oriente ha poi riacceso la contesa sul «pericolo» dell’immigrazione, argomento che si ripresenta con una certa puntualità ogniqualvolta dalle zone di conflitto la gente fugge disperatamente in cerca di salvezza.

Di questo e di altro abbiamo parlato con Maurizio Ambrosini, ordinario di Sociologia delle migrazioni all’Università statale di Milano e autore di moltissimi studi sul tema (l’ultimo dei quali, pubblicato quest’anno da Egea, ha per titolo Stato d’assedio. Come la paura dei rifugiati ci sta rendendo peggiori).

Seconda e terza generazione

«Ci sono due componenti che si mescolano e, in qualche misura, si saldano in ciò che sta avvenendo in Europa - dice Ambrosini al Corriere del Ticino - una è storica, l’altra sociale. La solidarietà con la Palestina è una componente di lungo corso dei movimenti europei della sinistra, giovanile e radicale. Da 50 anni vediamo manifestazioni pro-palestinesi nel nostro continente. Questa componente storica si fonde con l’altra, più sociale, vale a dire l’arrivo in Europa di popolazioni provenienti da Paesi arabi e di cultura musulmana. Sono soprattutto gli immigrati di seconda e di terza generazione che oggi scendono in piazza, esprimendo solidarietà con gli abitanti dei territori occupati e opposizione nei confronti di un Occidente visto come alleato di Israele, succube degli Stati Uniti e complice di politiche di apartheid, di oppressione del popolo palestinese».

Nei Paesi dove maggiore è stato il tasso di immigrazione, quindi, si fa più forte la voce della piazza a favore della Palestina e contro Israele: Francia, Gran Bretagna, Belgio. E anche l’Italia.

«Questo è vero - dice Ambrosini - ma non dobbiamo mai dimenticare una cosa: il grosso della popolazione europea di origine nordafricana proviene dall’Algeria nel caso francese, poi dal Marocco, dalla Tunisia, dall’Egitto. Sono persone che vivono una solidarietà con la Palestina di carattere più che altro ideale, morale. La loro identificazione culturale con la causa palestinese è anche un sentimento, più o meno accentuato, di opposizione nei confronti dell’Occidente e dei governi di impronta nazionalista».

Discorsi identitari

Ormai da anni, spiega il sociologo della Statale di Milano, «c'è un ritorno in politica verso priorità nazionali, la riaffermazione di discorsi che enfatizzano l’identità, gli interessi dei singoli Stati. Da questo punto di vista, Donald Trump è stato un antesignano. Ma pensiamo anche alla Brexit o alla stessa maggioranza che oggi guida l’Italia: altro non fa che parlare della nazione».

Protesta contro la guerra di Israele, quindi, ma anche contro orientamenti e scelte dei governi. «Affrontiamo l’elefante nella stanza - dice ancora Ambrosini - in tutti i Paesi europei ci sono consistenti minoranze di cultura musulmana. Se non si troverà il modo di migliorare la loro integrazione sociale, queste popolazioni saranno più esposte al richiamo di messaggi radicali ed estremisti. C’è una responsabilità delle nostre istituzioni politiche, dei nostri leader e un po’ della società nel suo insieme: bisogna trovare modi pacifici per integrare nel corpo sociale queste minoranze, ormai insediate e giunte alla seconda e terza generazione. Persone che guardano ai Paesi di origine come fonte di identità e come motivo per contrapporsi a società nelle quali si sentono esclusi, forse non senza motivo: se guardiamo i tassi di occupazione, di successo scolastico, di rappresentanza nelle istituzioni politiche, qualche ragione c’è».

Distinzione necessaria

La questione migranti islamici si ripropone. Subito dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre e l’inizio di una nuova, tragica diaspora palestinese, si sono nuovamente levate le voci di chi si oppone con forza ad accogliere le persone in fuga, le voci di chi sostiene sia troppo alto il rischio di far entrare terroristi nei nostri Paesi. Un dibattito, detto per inciso, che in quasi due anni di guerra russo-ucraina non è mai sorto in simili termini. I milioni di rifugiati cristiano-ortodossi, evidentemente, non suscitano identica paura dei senza futuro di religione musulmana.

Anche su questo, destra e sinistra in Europa si sono divise. Il conflitto in Medio Oriente, unito alla scelta spesso strumentale di non voler distinguere tra i terroristi di Hamas e le popolazioni palestinesi, sembra aver scavato un solco ancora più profondo tra le forze politiche di diverso orientamento. «È accaduto soprattutto in Francia - spiega Maurizio Ambrosini - Paese nel quale è stato addirittura coniato un termine, “islamo-gauchisme”, per criticare la saldatura tra gli intellettuali di sinistra e i movimenti musulmani, questi ultimi bersaglio diretto del presidente Emmanuel Macron e di una certa corrente politico-culturale transalpina».

E se a Berna - dopo che per due sabati consecutivi la Piazza federale si era riempita di attivisti filo palestinesi - è stato vietato fino a Natale di manifestare, a Parigi i toni (e non solo) si sono fatti molto più alti. «Il Governo francese ha sciolto i movimenti islamici accusati di radicalismo - aggiunge Ambrosini - Si sono mossi il presidente della Repubblica, i suoi ministri, e vari esponenti politici: tutti loro hanno attaccato le “infiltrazioni” di idee radicali negli atenei e nei centri di ricerca».

Hamas sospende il negoziato sugli ostaggi

Da tre giorni, a Gaza, si combatte sempre più a ridosso degli ospedali. Luoghi che la popolazione palestinese giudicava sicuri e che gli israeliani hanno sempre ritenuto essere, invece, rifugio dei miliziani e arsenali di Hamas. L’Esercito di Israele (IDF) ha ripetutamente invitato le autorità sanitarie della Striscia a evacuare le strutture e soltanto ieri il direttore di al-Shifa, Mohammad Abu Salmiya, ha detto in un’intervista a Radio Ashams che il personale medico e i pazienti del più grande ospedale di Gaza sono pronti per una immediata evacuazione, «se Israele lo consentirà».

I movimenti a tenaglia delle truppe dell’IDF sono seguiti quasi in tempo reale sul sito del New York Times, che pubblica una mappa interattiva. Oltre che nell’area attorno ad al-Shifa, i combattimenti infuriano a ridosso dell’ospedale pediatrico al-Rantisi, circondato da corazzati israeliani, e nel vicino ospedale al-Nasr. Marwan Jilani, direttore generale della Mezzaluna Rossa palestinese, ha detto che altri tre ospedali sono stati presi di mira: Al-Awda, l’ospedale indonesiano e l’ospedale Al-Quds.

La situazione, secondo gli osservatori internazionali, si fa di ora in ora più tragica. Anche Washington ha messo in guardia Israele dal continuare a combattere nelle vicinanze degli ospedali, anche se è d’accordo con l’opinione di Gerusalemme secondo cui Hamas utilizza le strutture civili per proteggere i combattenti e immagazzinare armi.

«Gli Stati Uniti non vogliono vedere scontri a fuoco negli ospedali, dove persone innocenti, pazienti che ricevono cure mediche, sono presi nel fuoco incrociato - ha detto ieri Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Joe Biden, in un’intervista al programma della CBS “Face the Nation”  - Abbiamo consultazioni attive su questo punto con le forze di difesa israeliane».

Ma intanto, i direttori regionali dell’UNICEF, del Fondo ONU per l’aiuto ai profughi e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) hanno chiesto in una dichiarazione congiunta, «un’azione immediata per fermare gli attacchi all’assistenza sanitaria a Gaza. Siamo inorriditi dalle ultime notizie di assalti all’ospedale al-Shifa, all’ospedale pediatrico al-Rantissi, all’ospedale al- Quds e ad altri nella città e nel nord di Gaza. Stanno morendo molte persone, compresi i bambini. E le intense ostilità impediscono l’accesso sicuro al personale sanitario, ai feriti e ad altri pazienti».

L’appello di ieri dei direttori è drammatico: «Gli attacchi contro le strutture mediche e i civili sono inaccettabili e costituiscono una violazione del diritto e delle convenzioni internazionali umanitarie e sui diritti umani. Non possono essere condonati. Il diritto di cercare assistenza medica, soprattutto in tempi di crisi, non dovrebbe mai essere negato. Più della metà degli ospedali nella Striscia di Gaza sono chiusi. Quelli ancora funzionanti sono sottoposti a una pressione enorme e possono fornire solo servizi di emergenza molto limitati, interventi chirurgici salvavita e servizi di terapia intensiva. Ora è necessaria un’azione internazionale decisiva per garantire un immediato cessate il fuoco umanitario, prevenire ulteriori perdite di vite umane e preservare ciò che resta del sistema sanitario di Gaza».

E quando sembrava che fosse in dirittura d’arrivo il rilascio di 80 persone rapite nel blitz del 7 ottobre, Hamas ha fatto marcia indietro, dicendo ieri di voler sospendere i negoziati sugli ostaggi proprio a causa della decisione di Israele di attaccare l’ospedale al-Shifa. La notizia è stata riportata dalla  Reuters che ha citato come fonte un funzionario palestinese informato sui colloqui per gli ostaggi.

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