La realtà economica è nei numeri

Resta ampia la divaricazione tra i dati reali e la descrizione della realtà economica che spesso viene fatta da una parte degli analisti e dei giornalisti. Su alcuni punti cruciali viene molte volte delineato un quadro che non ha il conforto dei dati e che direttamente o indirettamente va ad alimentare una percezione sbagliata da parte di chi legge, vede, ascolta. Vale la pena di esaminare più da vicino alcuni di questi punti cruciali.
Per quel che riguarda la crescita economica, viene spesso detto o scritto che non sono stati recuperati i livelli pre crisi finanziaria del 2008-2009. In realtà, la gran parte dei Paesi industrializzati ha recuperato quei livelli. Ci sono casi negativi, come quello dell’Italia. Ma i dati del Fondo monetario internazionale mostrano che i casi di recupero prevalgono chiaramente. Se si guarda alle economie avanzate (39 Paesi nel mondo secondo la classificazione dell’FMI), si vede come la crescita economica reale annua sia stata in media dell’1,7% tra il 2001 e il 2010 e dell’1,8% tra il 2011 e il 2018.
Si può discutere sul fatto che questa crescita economica sia o meno pienamente soddisfacente, ma è un fatto che l’aumento medio annuo reale del Prodotto interno lordo (PIL) abbia raggiunto e superato negli ultimi otto anni quello dei precedenti dieci anni. Diverso è il discorso per l’insieme dei Paesi emergenti e in via di sviluppo, che negli ultimi otto anni non hanno nel complesso recuperato il ritmo di crescita del precedente decennio. Ci sono però due osservazioni da fare: questi Paesi partivano da livelli bassi, hanno avuto in una serie di casi un’impennata della crescita, che è difficile se non impossibile mantenere per un periodo molto lungo; comunque, siccome l’indicazione del mancato recupero viene spesso estesa alle economie avanzate (delle quali fa parte la Svizzera), è interessante vedere come il recupero invece su questo versante ci sia stato.
Questo argomento del presunto mancato recupero, per essere chiari, viene spesso utilizzato contro le maggiori banche centrali, accusate di aver fornito negli ultimi anni una maxi liquidità anomala, senza risultati apprezzabili sul piano della crescita economica. Anche qui, occorre precisare. Un conto è interrogarsi legittimamente sulle dimensioni di questa liquidità e sull’utilità o meno di proseguire in questa politica di fronte all’attuale rallentamento economico internazionale, dovuto soprattutto alle tensioni geopolitiche e alla guerra dei dazi. Un altro conto è dire che la crescita economica nelle economie avanzate non ha recuperato i livelli pre crisi, cosa che non è. La maxi liquidità può essere adeguata o esagerata, può aver contribuito di più o di meno alla ripresa economica, si può discutere di tutto questo, ma resta il fatto che - per un insieme di motivi e non per uno solo - il recupero c’è stato.
Un altro punto importante è la disoccupazione. Il leitmotiv su questo versante è spesso quello di un aumento dei senza lavoro negli ultimi anni. Ma i dati FMI indicano un’altra realtà. Il tasso medio di disoccupazione nelle economie avanzate era dell’8,3% nel 2010 ed era del 5,2% nel 2018. Una netta diminuzione. Ci sono anche qui alcune singole eccezioni negative e ci sono certo spazi per ulteriori miglioramenti, ma descrivere una disoccupazione nel complesso in aumento in questi anni non corrisponde alla realtà.
Altro punto cruciale è quello dei salari reali. Il luogo comune vuole che negli ultimi anni ci sia stata una contrazione complessiva di questi o tutt’al più, nella migliore delle ipotesi, una stagnazione. Ma anche qui i dati ci fanno vedere che la realtà è diversa. Prendiamo i dati dell’International Labour Organization (ILO), organismo che è nell’orbita dell’ONU e che è espressione di Governi, imprese, sindacati. Nel suo ultimo rapporto sulle retribuzioni nel mondo (Global Wage Report, 2018/19), l’ILO fornisce cifre in base alle quali i salari reali tra il 2006 e il 2017 a livello globale sono ogni anno aumentati.
Per approfondire anche in questo caso il discorso delle economie avanzate, si possono prendere i dati ILO sui Paesi del G20. Anche su questo specifico versante nel periodo non ci sono state nel complesso contrazioni annue. La media degli aumenti annui dei salari reali è stata del 2,6% tra il 2006 e il 2011 e del 2,5% tra il 2012 e il 2017. Di nuovo, al di là di singoli casi negativi o di situazioni di breve periodo, questa è la situazione complessiva. Spesso l’argomento del presunto calo dei salari reali viene utilizzato per criticare la globalizzazione economica. Ma, come si vede, questo argomento non trova conferma nei dati.

I salari reali sono calcolati tenendo conto dell’inflazione o rincaro. Dunque è chiaro che più l’inflazione è bassa, meno i salari reali vengono intaccati. E l’inflazione bassa è una delle caratteristiche di questi ultimi anni. Secondo i dati FMI, nelle economie avanzate tra il 2001 e il 2010 l’inflazione media annua è stata dell’1,7%, mentre tra il 2011 e il 2018 è stata dell’1,3%. Un basso rincaro è positivo per i salari e le pensioni in termini reali, dunque anche in questo campo bisogna stare attenti a non rafforzare le tesi secondo cui ci vuole a tutti i costi un aumento dell’inflazione, perché questo dimostrerebbe che l’economia va bene. Non è detto che sia così. E comunque, una bassa inflazione certamente favorisce i salari reali.
E veniamo ad altri due classici cavalli di battaglia degli avversari della globalizzazione economica e dei sostenitori di un mancato recupero di crescita dopo il 2008 – che invece nel complesso c’è stato – nei Paesi industrializzati. Parliamo dei presunti aumenti della povertà e delle diseguaglianze. Per quel che riguarda la povertà estrema (soglia di 1,90 dollari al giorno per persona), questa nel mondo è nettamente diminuita negli ultimi decenni. I dati della Banca mondiale sono chiari su questo versante: la povertà estrema toccava nel 1990 il 37,1% della popolazione mondiale e toccava invece il 9,6% nel 2015. Anche un solo povero è di troppo, questo è sempre vero. Ma è chiaramente sbagliato sostenere che con la globalizzazione la povertà sia nel complesso aumentata.
Quanto alle diseguaglianze, i luoghi comuni pure sono tanti. Se si guarda a livello mondiale, in questi decenni le diseguaglianze tra Paesi sono in realtà diminuite, questo è sotto gli occhi di tutti e non si capisce come si possa negarlo. Basti vedere, ad esempio, la crescita di grandi Paesi emergenti come Cina, India, Brasile e altri. L’indice Gini che misura le diseguaglianze tra Paesi è nettamente diminuito (vedi, tra le molte analisi, lo studio Hellebrandt-Mauro e i dati di Eticaeconomia). All’interno dei singoli Paesi – siano essi industrializzati, emergenti, in via di sviluppo – la situazione è variegata. Ci sono Paesi in cui le diseguaglianze economiche e sociali sono aumentate, ma anche molti altri in cui sono diminuite. Tra i molti approfondimenti, è interessante richiamare lo studio sulle diseguaglianze presentato nel 2015 da Fondazione Hume e e Il Sole 24 Ore. Analizzando 34 Paesi che fanno parte dell’OCSE, lo studio indica la tendenza della diseguaglianza negli anni Duemila. In 18 di questi Paesi la tendenza era in diminuzione e in 16 in aumento. Anche all’interno dei singoli Paesi in molti casi le diseguaglianze si sono ridotte. L’aumento di queste non riguarda la maggioranza dei Paesi considerati. E, dove c’è, evidentemente è legato alle singole economie e alle politiche dei Governi nazionali, non all’apertura agli scambi mondiali. Se no riguarderebbe tutti i Paesi presenti sul mercato globale, non solo una minoranza.
La Svizzera diversa da quella spesso descritta

Anche la realtà economica elvetica viene presentata spesso in modo distorto, all’interno di analisi e commenti che non tengono in debito conto i dati reali. Per quel che riguarda la crescita economica, la Svizzera in molti casi è dipinta come un Paese dal passo molto lento, periodicamente sull’orlo di crisi. In realtà, secondo i dati FMI, la Svizzera ha registrato un aumento medio annuo del PIL reale che tra il 2001 e il 2010 è stato dell’1,8% (economie avanzate: 1,7%) e tra il 2011 e il 2018 dell’1,7% (economie avanzate: 1,8%). Considerando che la Svizzera ha da tempo un reddito pro capite già elevato e che nel 2015 con l’impennata del franco ha subito uno shock valutario rilevante, si è trattato di un andamento nel complesso chiaramente positivo.
Per quel che concerne la disoccupazione, la Svizzera rimane tra i Paesi che hanno i tassi più bassi. Per i dati FMI, la percentuale nazionale di senza lavoro nella Confederazione era del 3,5% nel 2010 (8,3% nelle economie avanzate) ed è scesa al 2,8% nel 2018 (5,2% nelle economie avanzate). Secondo la Segreteria di Stato dell’economia (SECO), a conti finali fatti la disoccupazione in Svizzera nel 2018 è stata peraltro ancora più bassa: 2,6%. Nelle tabelle dell’FMI, solo 6 delle 39 economie avanzate avevano nel 2018 una disoccupazione inferiore al 3% e tra queste appunto la Svizzera. Affermare che negli ultimi anni la disoccupazione è salita è in contrasto con i dati complessivi delle economie avanzate ma è ancor più in contrasto con i dati che riguardano la Svizzera. Si può e si deve sempre cercare di migliorare, ma il mercato del lavoro elvetico rimane tra i meglio messi.
Recentemente l’Ufficio federale di statistica (UST) ha segnalato che la Svizzera, secondo la rilevazione Rifos, ha in Europa il tasso più elevato di sottoccupati (persone che lavorano a tempo parziale e che vorrebbero lavorare di più). Ma si tratta di un elemento che va letto per il verso giusto. Nella gran parte degli altri Paesi europei la percentuale di sottoccupati è minore ma la disoccupazione è maggiore. Hanno meno sottoccupati, ma hanno più disoccupati. Se dunque da un lato è comprensibile interrogarsi sulla possibilità di far lavorare di più chi è a tempo parziale, soprattutto sul versante femminile, dall’altro è sbagliato affermare che la Svizzera ha un primato europeo negativo in tema di mercato del lavoro. È vero semmai il contrario.
I salari reali, che sono calcolati tenendo conto del rincaro o inflazione, in Svizzera tra il 2006 e il 2018 sono calati in tre anni e sono invece aumentati in tredici anni (dati Ufficio federale di statistica). L’aumento medio annuo è stato dello 0,5% tra il 2005 e il 2011 e dello 0,7% tra il 2012 e il 2018. Si può discutere del fatto che questi aumenti siano sufficienti oppure no, certo. Ma è in contrasto con questi dati affermare, come spesso viene fatto, che c’è stata una contrazione o una stagnazione dei salari reali a livello complessivo svizzero. È chiaro che uno dei fattori che ha permesso questa tenuta dei salari è la molto bassa inflazione in Svizzera. Ancora una volta, un rincaro molto contenuto è stato un elemento positivo.
La Svizzera viene anche spesso accusata, dall’esterno ma anche dall’interno, di essere un Paese con diseguaglianze economiche e sociali molto più elevate rispetto a tante altre economie. Ma è davvero così? Bisogna stare attenti a non confondere le immagini di alcune grandi ricchezze e di alcune povertà, che pure ci sono, con la realtà complessiva del Paese. Da anni la Svizzera si colloca a metà della classifica internazionale basata sul coefficiente Gini sulla diseguaglianza, dunque non è ai vertici delle disparità. La posizione oscilla poco, è abbastanza stabile.
Una stabilità a cui contribuisce tra l’altro anche la ridistribuzione attuata dalla mano pubblica, attraverso imposte e prestazioni sociali. Secondo l’Ufficio federale di statistica, per la Svizzera «sul lungo periodo si osserva una leggera diminuzione della diseguaglianza fino al 2001, un leggero aumento dal 2003 al 2007, in seguito una stabilizzazione o una tendenza ad una leggera diminuzione». Una fotografia che pone la Confederazione elvetica lontano dal quadro, molte volte descritto in analisi e articoli, di un Paese ai vertici delle diseguaglianze.