Medio Oriente

La rotta navale del Mar Rosso sta tornando alla «normalità»

Anche se le incertezze e le cautele permangono, le imbarcazioni stanno abbandonando la lunga e costosa deviazione attraverso il Capo di Buona Speranza – Ma nello Stretto di Hormuz la tensione è in aumento
©EPA/YAHYA ARHAB
Gian Luigi Trucco
30.12.2025 22:30

Mentre le navi della «flotta fantasma» russa si riparano dagli attacchi dei droni ucraini lungo le coste della Turchia, petroliere, portacontainer e altre imbarcazioni commerciali stanno riprendendo la rotta del Mar Rosso, abbandonando la lunga e costosa deviazione attraverso il Capo di Buona Speranza e l’Africa Occidentale, aperta con l’inasprirsi degli attacchi da parte delle milizie yemenite Houthi.

Da allora, a solcare le acque del Mar Rosso sono state imbarcazioni in numero molto inferiore (120 transiti nel novembre 2025 rispetto ai 583 dell’ottobre 2023) e di minori dimensioni, impegnate soprattutto nel traffico locale e con un profilo più basso riguardo alle strategie Houthi.

In realtà questo ritorno verso la «normalità» è graduale e risponde a strategie diverse, soprattutto in rapporto alla destinazione finale, Mediterraneo, costa orientale USA o Nord Europa. Le incertezze e le cautele permangono, come indicano i costi assicurativi che si mantengono relativamente elevati e gli armatori si trovano confrontati con varie questioni, dall’arrivo anticipato delle merci e le possibili congestioni dei porti al naviglio che si libererà, dunque alla sovracapacità, con il ritorno alle linee tradizionali ed alla conseguente diminuzione dei noli.

Del resto, l’occhio degli operatori è ancora rivolto al vicino chokepoint critico, appena più a Nord, lo Stretto di Hormuz ed il Golfo di Oman, ove i problemi di «disturbo» agli apparati di localizzazione e di comunicazione si susseguono e la tensione non accenna a diminuire. Né va trascurato lo scenario meridionale, in cui la pirateria somala mostra segnali di risveglio e di collegamento con le fazioni islamiche integraliste.

Mossa israeliana molto criticata

Ma su questo scenario è giunta lo scorso 26 dicembre, non troppo all’improvviso, la decisione del Governo Netanyahu di riconoscere la Repubblica di Somaliland e di avviare con essa rapporti ufficiali. Israele è dunque l’unico Paese ad aver assunto questa decisione nei confronti del territorio che ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza dalla Somalia nel 1991 (ma che ancora è parte integrante di essa per l’Unione africana). In realtà la capitale Hargeisa ospita uffici di collegamento di Etiopia, Turchia, Emirati e Regno Unito, ma nessuna di queste nazioni ha finora istituzionalizzato il rapporto a livello diplomatico.

La mossa di Gerusalemme ha sollevato violente critiche nel mondo arabo e non solo, ad iniziare dalle autorità della vicina Gibuti, dalla Lega Araba e dalla Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC), Gulf Cooperation Council (GCC) ed è percepita come elemento di destabilizzazione regionale e di ulteriore frantumazione della quanto mai complessa e precaria realtà somala.

Secondo Israele, invece, l’iniziativa si inquadra nello spirito degli Accordi di Abramo, rifiutati da Mogadiscio, con obiettivi legati alla sicurezza, al controllo del traffico marittimo ed alla raccolta di intelligence in una delle aree più rilevanti a livello globale quale è il Corno d’Africa.

Ovviamente, a riscaldare gli animi è il timore di una possibile presenza militare israeliana proprio in questa area critica e strategica, punto privilegiato per il controllo del traffico marittimo, sul Golfo di Aden, lo Stretto di Bab el-Mandeb, a poche miglia dallo Yemen ove il credo dichiarato degli Houthi è «morte a Israele».

Una presenza che porterebbe più sicurezza o alimenterebbe maggiori tensioni ? Secondo gli ambienti diplomatici della regione una presenza militare israeliana sarebbe percepita come un fattore di condizionamento per il corridoio del Mar Rosso, con danni per i Paesi che lo costeggiano, a iniziare dall’Egitto, che dai «pedaggi» da e per il Mediterraneo trae una quota consistente delle sue entrate erariali, oltre ad Arabia Saudita, Somalia, Gibuti, Yemen e Sudan. L’ambasciatore di Gibuti a Riyadh ha parlato addirittura del pericolo di una «polveriera» israeliana.

Al di là degli aspetti geopolitici il nuovo scenario comporta considerazioni economiche e logistiche. L’alternativa del Capo aveva determinato l’attivazione e lo sviluppo di terminali lungo la costa africana occidentale e a ridosso dell’entrata di Gibilterra. Tangeri e altri centri del Maghreb ne sono esempi, che potrebbero conoscere un’ulteriore fase di crescita nel caso di una nuova crisi lungo la rotta del Mar Rosso. Sorte diversa sarebbe quella riservata agli imponenti investimenti, prevalentemente cinesi ma non solo, realizzati in Africa Orientale e nel Corno, a iniziare da Gibuti. Ma ciò che risulterebbe più preoccupante sarebbe una nuova crisi logistica con interruzioni e ritardi nelle catene di fornitura per le aziende europee ed inevitabili aumenti dei costi. Una situazione déja vu, che molto è costata ed ancora costa alle nostre aziende.