L’intervista

La sfida del modello cinese all’occidente

Le valutazioni di Giovanni Andornino, docente di Relazioni internazionali dell’Asia orientale presso l’Università di Torino, sulle trasformazioni in atto a Pechino
Il terminal per container nel porto cinese di Haikou, nel sud del Paese. © Shutterstock
Osvaldo Migotto
25.05.2021 22:34

La Cina sta trasformando le dinamiche della politica globale più di qualsiasi altro Paese al mondo. Con quali conseguenze? Ne abbiamo parlato con Giovanni Andornino, curatore del volume «Cina. Prospettive di un paese in trasformazione», da poco pubblicato dalla casa editrice Il Mulino. Un libro ben strutturato alla cui stesura, oltre allo stesso Andornino, hanno partecipato altri studiosi, tra cui Simona Grano dell’Università di Zurigo, che hanno affrontato tematiche di peso quali le relazioni sino-europee, l’ecosistema cinese dell’innovazione, i rapporti tra Cina e sud-est asiatico, la modernizzazione delle forze armate cinesi e altro ancora.

La Cina è considerata da USA e UE come un rivale sistemico in quanto promotrice di un modello di Stato e società alternativo a quello liberale e democratico. Eppure nell’ultimo ventennio il ceto medio in Cina è cresciuto in modo rilevante sia numericamente che per livello di reddito, mentre in diversi Paesi europei assistiamo a un’erosione del ceto medio. Quali le principali cause di queste opposte tendenze?
«Le cause sono riconducibili al diverso stadio di sviluppo delle due parti del mondo, oltre che a precise scelte di politica economica. Negli ultimi decenni la Cina si è industrializzata e le politiche dello Stato sviluppista cinese hanno consentito l’accumulo di capitali importanti in mano privata. In Occidente la finanziarizzazione del nostro capitalismo e le altre politiche neoliberiste inaugurate negli anni ’80 hanno innescato le note conseguenze di polarizzazione della ricchezza. Le implicazioni sono importanti: chiediamoci cosa significhi, per il nostro futuro, il fatto che nei maggiori Paesi asiatici la grande maggioranza dei genitori preveda un futuro migliore per i propri figli, mentre da noi accade l’opposto».


Il modello di società cinese è stato preso ad esempio da altri Paesi?
«Dopo la morte di Mao nel 1976 la Cina aveva scelto un basso profilo nella sua politica estera. Ora stiamo entrando in una fase nuova: nella Cina di Xi Jinping si parla apertamente di “via cinese”. Il modello cinese di società modernizzata ed economia prospera si avvia a diventare l’alter ego di un approccio occidentale che eravamo abituati a considerare l’unica formula legittima e attraente a livello mondiale».

Gli USA stanno creando un’alleanza anti-cinese che oltre ai Paesi del G7 dovrebbe comprendere Australia, Corea del Sud e India. Una riposta alle provocazioni di Pechino nell’area indo-pacifica, come la militarizzazione degli atolli nel Mar cinese meridionale. Tale alleanza potrebbe rendere la Cina meno aggressiva?
«Dopo i segnali più abrasivi dell’amministrazione Biden nei primi tre mesi, mi pare di constatare un aggiustamento di tiro nelle ultime settimane. Credo sia chiaro a entrambe le parti che ragionare secondo una logica esclusivamente a somma zero, mors tua vita mea, compromette gli spazi per azioni coordinate sulle grandi sfide globali e rischia di far scatenare un conflitto in Asia dalle implicazioni imprevedibili».

Secondo Pechino la Nuova via della seta favorirà gli scambi commerciali internazionali, per altri si tratta invece di una sorta di Cavallo di Troia con cui la Cina tenta di accrescere la sua potenza commerciale ed economica a livello mondiale. Lei come la vede?
«La Belt and Road Initiative (BRI) è un ambizioso veicolo di proiezione della Cina su scala globale. Essa serve a Pechino per costruire una narrazione coerente alla serie di iniziative, per lo più bilaterali, con cui la Cina investe, sovvenziona, progetta e realizza attività nello spazio euro-asiatico e oltre. Le risorse finanziarie coinvolte sono essenzialmente cinesi, dunque non può stupire che la BRI serva gli interessi cinesi, in senso lato. Molte delle operazioni sotto l’ombrello della BRI presentano opportunità per i Paesi interessati, anzitutto in termini di modernizzazione. La capacità di attrazione presso i Paesi in via di sviluppo è inversamente proporzionale alle opportunità create da altri possibili partner, ad esempio l’UE».

Come valuta l’acquisto, da parte cinese, di porti cruciali per il commercio mondiale?
«Non sempre la Cina acquista i porti, come nel caso del Pireo (in Grecia ndr). La presenza cinese nei porti italiani è invece legata a concessioni di quote di terminali in un regime di vivace concorrenza globale. È chiaro però che sulla portualità la Cina gioca una partita di leadership globale, essendo il corridoio trasportistico Asia-Europa il più importante del mondo».

Quali invece le conseguenze della bassa crescita demografica cinese?
«Per quarant’anni la Cina ha beneficiato di una vasta riserva di forza lavoro giovane e relativamente ben istruita. Questo ha favorito la modernizzazione accelerata cui abbiamo assistito, calmierando il costo del lavoro e accrescendo di conseguenza la competitività della Cina come hub mondiale dell’assemblaggio e della produzione a medio-basso valore aggiunto. L’invecchiamento della popolazione farà perdere alla Cina questo vantaggio e costringerà Pechino a irrobustire uno stato sociale tuttora deficitario».