Il caso

Le rivelazioni di Paul Landis, 60 anni dopo l'assassinio di Kennedy

All'età di 88 anni, l'ex agente dell'allora presidente degli Stati Uniti racconta la sua versione dei fatti, svelando che cosa accadde il 22 novembre del 1963 — Le incongruenze e lo scorrere del tempo, però, lasciano dubbi sulla sua testimonianza
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Red. Online
16.09.2023 20:24

Dallas, 22 novembre 1963. Dall'assassinio del Presidente John Fitzgerald Kennedy sono passati ormai 60 anni. Ma solo ora, a distanza di poco più di mezzo secolo, emergono nuovi dettagli su quanto avvenne in quel giorno. Uno dei più tragici per la storia americana. 

A parlare è stato Paul Landis. Uno degli agenti dei Servizi Segreti di JFK, all'epoca appena 28.enne, nonché testimone dell'assassinio. In quel terribile giorno, infatti, anche lui si trovava a Dealey Plaza, per sorvegliare i figli del presidente. Sentì con le sue orecchie i rumori degli sparì che colpirono il Presidente. E non solo. Nel suo libro, «The Final Witness» (il testimone finale), l'ex agente ha deciso di svelare quello che realmente videro i suoi occhi. A raccontarlo è un Paul Landis ormai 88.enne: un Paul Landis che, fino ad ora, aveva deciso di tacere, perché parlare era troppo doloroso. Ma ora, che di tempo ne è passato «abbastanza», si sente pronto per rivelare al mondo quella che, a suo dire, è stata la vera cronaca dei fatti di quel 22 novembre di quasi sessant'anni fa. 

Sessant'anni dopo

Partiamo dalle cose importanti: il resoconto offerto da Landis nel suo libro — e in parte delle interviste rilasciate negli ultimi giorni — si discosta parecchio dalla versione ufficiale. Abbastanza da poter cambiare la comprensione di ciò che accadde realmente in Dealey Plaza. Nello specifico, il suo ricordo mette in discussione la teoria avanzata dalla Commissione Warren, oggetto di tante speculazioni e dibattiti, secondo la quale uno dei proiettili sparati quel giorno colpì il Presidente da dietro, uscì dalla parte anteriore della sua gola e continuò a colpire Connally, riuscendo in qualche modo a ferirlo alla schiena, al petto, al polso e alla coscia. Da qui, la cosiddetta teoria del «proiettile magico». 

Di più, il racconto dell'ex agente entrerebbe in contraddizione con quelle che furono le dichiarazioni ufficiali rilasciate dalle autorità subito dopo la sparatoria. Senza nulla togliere al fatto che un silenzio così prolungato, oltre a essere parzialmente sospetto, risulta anche poco attendibile. Anche per chi gode di buona memoria, insomma, i ricordi, dopo sessant'anni, potrebbero ormai essere sbiaditi e risultare quindi imprecisi. 

Eppure, lo stesso Landis ha dichiarato che il suo racconto inedito «non ha alcun obiettivo». Non a questo punto, per meglio dire. L'88.enne ha ribadito, una volta di più, che la sua decisione di riportare la sua versione dei fatti, in quanto testimone, è frutto del semplice scorrere del tempo. E che chi vorrà, potrà trarre le sue conclusioni. 

La versione di Landis

Arriviamo, dunque, a quella che, a detta di Landis, è la vera versione dei fatti. Parte fondamentale della teoria del «proiettile magico» avanzata dalla Commissione Warren fa riferimento al ritrovamento di un proiettile sulla barella che si credeva contenesse Connally. Da quella scoperta, di seguito, erano nate le speculazioni secondo la quale il proiettile era verosimilmente uscito dal corpo dell'uomo, nel tentativo di salvargli la vita. Ma, secondo quanto rivela Landis, le cose andarono in maniera totalmente diversa. E l'ex agente, in teoria, dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro, visto che, a suo dire, a ritrovare il cosiddetto proiettile magico fu proprio Landis in persona. Non sulla barella del Parkland Memorial Hospital, ma nella limousine presidenziale, conficcato nello schienale dietro a quello a cui era seduto Kennedy. 

Ammesso che i racconti di Landis siano veri, viene spontaneo chiedersi per quale motivo l'uomo sia stato in silenzio così a lungo. Dopotutto, ancora oggi, l'ex agente dice di avere dei ricordi confusi su che cosa avvenne in quel momento. Landis ha quindi riferito che, in un primo momento, avrebbe staccato il proiettile per evitare fosse rubato dai cacciatori di souvenir. Solo dopo, entrato in ospedale, lo avrebbe messo accanto a Kennedy, sulla sua barella, pensando potesse essere utile ai medici per capire cosa fosse successo. Poi, forse, qualcuno ha spinto le barelle e il proiettile si è spostato su quella di Connally, dando origine alla teoria della Commissione Warren. 

«Non c'era nessuno a mettere in sicurezza la scena, e questo per me fu un grande fastidio», ha confessato recentemente Landis, secondo quanto riportato dal New York Times. «Stava accadendo tutto molto velocemente, e temevo che una prova così importante si perdesse. Così mi sono detto: "Paul, devi prendere una decisione". E così, l'afferrai». 

Col passare degli anni, l'ex agente ha avanzato diverse teorie. Tra qui, quella che il proiettile avesse colpito Kennedy alla schiena ma che, per qualche motivo, non essendo stato caricato a sufficienza, non sia riuscito a penetrare in profondità, uscendo quindi prima che il corpo del presidente venisse rimosso dalla limousine. Inoltre, Landis ha sempre creduto che Lee Harvey Oswald, l'assassino solitario, fosse l'unico responsabile dell'attacco.

Le contraddizioni

C'è un altro problema, però, nella vicenda. E ha a che fare con le dichiarazioni iniziali che Landis diede la settimana successiva alla sparatoria. In quelle occasioni, oltre a non menzionare il ritrovamento del proiettile, riferì di aver sentito solo due spari anziché tre e di non essere mai entrato nella sala dell'ospedale dove venne portato Kennedy. L'88.enne, dal canto suo, si è difeso dalle accuse ribadendo che all'epoca era sotto shock, non dormiva da cinque giorni ed era impegnato ad aiutare la first lady a superare il trauma. 

Solo nel 2014, cinquant'anni dopo, si sarebbe reso conto che la sua versione dei fatti era differente da quella riportata in passato e teorizzata dalla Commissione Warren. In un primo momento, è stato invaso da un sentimento di paura, ma poi, alla fine, ha deciso di parlare. Ma nessuno davvero sa se ciò che sta raccontando corrisponda alla verità.