Leopoli sotto le bombe russe

Quando comincia la Settimana Santa delle comunità cristiane ortodosse, nessuno crede a una tregua pasquale. Dall’inizio del conflitto, «oltre 60 chiese sono state attaccate, alcune completamente distrutte. I russi non si sono fermati di fronte a niente. Lo abbiamo visto nelle città martoriate di Sumy e Chernihiv. È difficile quindi oggi credere che possano rispettare una tregua pasquale». Lo dice da Leopoli don Taras Zheplinskyi, del dipartimento di comunicazione della Chiesa greco-cattolica.
Nella città a 40 chilometri dal confine polacco hanno vissuto per la prima volta un raid missilistico nel centro urbano: «Cinque missili hanno provocato la morte di 7 persone e 11 feriti», ha detto il sacerdote precisando che si tratta di un bilancio provvisorio. L’onda d’urto ha danneggiato le infrastrutture ferroviarie, bloccando per ore la fuga di migliaia di persone.
«Qui a Leopoli - osserva don Taras - tante persone non avevano ancora sperimentato direttamente gli effetti della guerra. Stavolta gli attacchi missilistici si sono sentiti: le finestre delle case sono andate in frantumi e anche decine di auto sono state colpite. Fino a oggi Leopoli era una regione abbastanza tranquilla, anche perché è la città che accoglie tantissimi rifugiati. Ora si ha paura. Non sappiamo che cosa aspettarci. Cominciamo la Settimana Santa in questa incertezza».
Arma ideologica
Le ricadute religiose, in questa guerra, stanno diventando non secondarie. La Russia, infatti, ha accusato Kiev di preparare “false flag”, in altre parole attacchi la cui responsabilità attribuire poi proprio a Mosca. Gli obiettivi sarebbero le chiese. Una versione, però, che contrasta con l’alto numero di edifici di culto danneggiati, secondo Kiev, proprio dai battaglioni inviati da Mosca.
Per comprendere l’uso della religione come arma ideologica bisogna abbandonare le analisi da strategia militare e tentare di ricostruire le ambizioni di Vladimir Putin, un’aspirante zar senza un vero impero.
Kiev è considerata dai cristiani dell’Est come una sorta di “Gerusalemme degli slavi”. Storia e leggende di comodo si intrecciano. Lo Stato della “Rus' di Kiev” nacque alla fine del IX secolo lungo le sponde del fiume Dnepr. Originato da alcune tribù vichinghe svedesi, appunto chiamate Rus', la monarchia medievale degli Slavi orientali ricopriva parte dei territori dell’attuale Ucraina, la Russia occidentale, Bielorussia, Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia Kiev ne era la capitale. L’epopea degli zar e di Mosca che diventerà epicentro dell’impero arriverà dopo, ereditando molto dell’epoca della Rus’ di Kiev.
Ed è qui, nell’odierna capitale bersagliata dai raid a partire dal 24 febbraio, nel perimetro anticamente fortificato del complesso religioso di Santa Sofia, che è custodita la memoria dei popoli cristiani delle “Russie”. In molti sostengono che Putin aveva in mente di conquistare Kiev anche per riconsegnare a Kirill, patriarca di Mosca offeso dal distacco della chiesa ortodossa ucraina, la “Gerusalemme” definitivamente sfuggita alla sfera d’influenza moscovita.
Patrimonio UNESCO
Annoverato dall’UNESCO tra i beni “Patrimonio Mondiale dell’Umanità”, il complesso risale all’XI secolo, quando Yaroslav il Saggio, governatore del Principato di Kiev, ne commissionò l’edificazione. Il verde intenso delle cupole, gli affreschi e i mosaici, ne fanno uno scrigno che custodisce la memoria e protegge il futuro. Secondo gli abitanti di Kiev la città continuerà ad esistere fino a quando Santa Sofia resterà intatta.
Ai tempi del totalitarismo moscovita, negli anni ’30 fu stabilito di demolire la cattedrale, ma davanti alla protesta di numerosi studiosi, Mosca lasciò perdere. Negli anni ’80 del secolo scorso, il governo eterodiretto dal Cremlino avrebbe voluto riconsegnare il complesso alla Chiesa ortodossa russa. Alla fine, sotto la spinta della popolazione, assai diffidente nei confronti della gerarchia ecclesiastica filosovietica, fu deciso di aprire la cattedrale al pubblico e di trasformarla in un museo accessibile a chiunque.
Parole d’odio
La profanazione delle chiese segue di pari passo quello dei civili disarmati uccisi senza pietà. Ci vorrà tempo per conoscere il bilancio della mattanza. Se il “metodo Bucha” è stato applicato in gran parte delle terre occupate, bisognerà prepararsi a una contabilità assai più spaventosa.
«Noi a Bucha stimiamo che sia stato ucciso un abitante su cinque di coloro che sono rimasti in città durante l’occupazione dell’esercito russo - ha detto il sindaco Anatoliy Fedoruk alla televisione ucraina - Personalmente, come migliaia di miei concittadini, provo odio per coloro che hanno torturato e ucciso i pacifici abitanti di questo posto».
E sono le parole d’odio, oramai sulla bocca di entrambe le parti, a non lasciare intravedere soluzioni rapide né stabili. Nonostante l’appello degli amministratori locali a lasciare le città dirigendosi specialmente verso Polonia e, a Sud, in direzione della Moldavia, si ripetono i sabotaggi alle vie di fuga. Stazioni e infrastrutture ferroviarie oramai vengono colpite con regolarità. Nei raid russi sulla regione di Leopoli «alcuni siti vicini alla ferrovia sono stati colpiti», ha comunicato Oleksandr Pertsovskyi, capo delle ferrovie ucraine. Pertsovskyi non è stato in grado di dire se si trattasse di attacchi intenzionali o di danni collaterali.
Durante gli attacchi, alcuni treni sono stati instradati su percorsi alternativi, allontanando i convogli dalla linea del fuoco, altri sono rimasti bloccati mentre i passeggeri hanno tentato di raggiungere rifugi e ripari di fortuna.
Il comando delle forze armate ucraine ha detto di credere che la Russia abbia iniziato una nuova spinta per il controllo dell’Est, aumentando l’intensità degli attacchi. Spinta indietro dalla resistenza ucraina nel Nord, Mosca ha rifocalizzato la sua offensiva di terra nelle due province del Donbass, mentre lancia attacchi a lunga distanza verso Kiev e Leopoli. Un’escalation che, prima di un possibile cessate il fuoco pasquale, condanna l’Ucraina a un’altra settimana di passione.