«L’equilibrio del voto USA del 2020? Nel 1984 fu un plebiscito»

Equilibrio, testa a testa, incertezza. Concetti di cui stiamo abusando, nel commentare le presidenziali del 2020. Nel 1984 bastò una sola parola: plebiscito. Un’edizione insomma agli antipodi, rispetto a questa. Ne abbiamo parlato con Marco Sioli, professore di Storia e politica americana presso l’Università Statale di Milano e autore, tra le altre cose, del volume «La parabola di Ronald Reagan».
Nel 1984, Ronald Reagan sconfisse Walter Mondale per 525 grandi elettori a 13, 49 Stati rossi, uno soltanto blu. Professor Sioli, cosa accadde?
«A differenza di Trump, Reagan aveva alle spalle una storia più lineare, come racconto nel mio volume La parabola di Ronald Reagan. Anche se il suo ruolo come speaker radiofonico e attore cinematografico lo può far sembrare simile a Trump, in effetti è stato esattamente l'opposto. Nessun fallimento economico alle spalle, nessuna voglia di coinvolgere i parenti nelle iniziative politiche, un rapporto simpatetico con il sindacato AFL_CIO, nessun rapporto conflittuale con l'universo femminile. Il secondo matrimonio con Nancy, che gli sarà sempre a fianco nei momenti difficili, come l'attentato subito all'inizio del suo mandato, aveva rafforzato la sua immagine di uomo legato alla famiglia anche se la figlia del primo matrimonio aveva posato nuda per Playboy. Ha inoltre saputo reagire alle vicissitudini della sua presidenza in modo efficace. Si era fidato del suo team portato a Washington dalla California che era rimasto tale senza licenziamenti repentini e vendicativi. Aveva sì portato alle dimissioni il Segretario di Stato Alexander Haig, giudicato un falco che voleva reagire con la forza alla provocazione dell'invasione della Polonia dell'Unione Sovietica, ma quando si era trattato di agire nei confronti della Libia e di Grenada lo aveva fatto con energia autorizzando il bombardamento di Tripoli e l'invasione dell'isola caraibica. Molto più simile alla presidenza Obama che non a quella di Trump, anche nel motto "Yes we can" o "Buy American" invece di "American First". A parte l'apparente guerra di dazi con la Cina si è disinteressato del mondo e soprattutto del mondo atlantico. Insomma con una battuta, Reagan è stato un grande comunicatore e non un grande twittatore».
Fu insomma più la forza di Reagan che non la debolezza dell’avversario.
«Sicuramente la forza politica di Reagan nonostante la crisi economica che continuava a imperversare e le sue politiche a favore esclusivamente di una middle class bianca con cui era in sintonia. La gente si fidava di lui e non di Mondale per portare a termine quello che successivamente condividerà anche Bill Clinton: il big government di Washington. La ridefinizione delle spese sociali e la crescita delle spese militari che è considerata da molti la chiave di volta della ripresa economica dell’età reaganiana. In più il vigoroso anticomunismo retorico del primo mandato e le varie azioni militari riuscirono a galvanizzare lo spirito nazionale indebolito dagli insuccessi del suo predecessore Carter. In definitiva Reagan era riuscito, anche grazie all’appoggio della Moral Majority di Jerry Falwell, ad apparire agli occhi degli americani come un presidente integerrimo, onesto e affidabile. Uno di loro più che il loro presidente. Inoltre la capacità di trattativa, la disponibilità a negoziare e la flessibilità di un presidente che amava la gente e da essa era ricambiato lo aveva portato a riuscire a gestire in modo efficace le sue strategie politiche che ricordiamo erano fondamentalmente tre: la riduzione delle imposte, il più ampio taglio prima di Trump ottenuto grazie a una risicata maggioranza repubblicana al Senato, l’azione di deregolamentazione dell’apparato statale e finanziario che porterà alla fine del secondo mandato a fenomeni di speculazione e infine la difesa dei valori tradizionali wasp che tradivano logiche razziali e di genere».
Come descriverebbe i democratici anni 80?
«Weak. La presidenza di Carter aveva messo in difficoltà il partito. La debolezza mostrata nei confronti dell’Iran con la crisi degli ostaggi aveva fatto apparire il partito incapace di gestire le crisi internazionali e soprattutto il problema palestinese lasciando spazio al terrorismo. Dal punto di vista interno era palese che il sistema di erogazione dei sussidi, in particolare alle single mothers afroamericane con figli a carico, aveva favorito un fenomeno definito “la femminilizzazione della povetà” che verrà combattuto da Reagan che valorizzerà la famiglia tradizionale».
Qualcosa di simile è oggi irripetibile. Cos’è cambiato da allora in America?
«L’America di oggi è molto più divisa e frastagliata con le nuove migrazioni che hanno portato i latinos a superare la percentuale degli African Americans, e chiaramente il peso della presidenza di Barack Obama che invece di riavvicinare le identità le ha divise ancor di più portando alla spaccatura di oggi. Ci sono delle cose invece che sono rimaste identiche: la difficoltà di gestire un’epidemia. Quella di AIDS per Reagan e quella di SARS-CoV-2 per Trump. Entrambi i presidenti hanno cercato di negare e sottovalutare un fenomeno apparentemente incontrollato. Se Reagan aveva dato la colpa agli omosessuali convincendo la maggioranza silenziosa a condividere le sue convinzioni, Trump ha minimizzato il problema portandolo a una grave crisi di immagine in quell’elettorato bianco che era stato la colonna portante della seconda elezione di Reagan».