L’eredità (politica) impossibile di Silvio Berlusconi

Silvio Berlusconi è morto lunedì, due giorni fa. Ma il berlusconismo politico era finito da molto tempo. Da anni.
La parabola di potere del leader di Forza Italia è infatti stata molto meno lunga di quanto si continui a dire e a leggere: non 30 anni, ma 18. Racchiusa tra la prima vittoria elettorale (27 marzo 1994) e le ultime dimissioni da presidente del consiglio (12 novembre 2011). Ecco perché il dibattito che infuria un po’ dappertutto in Italia sull’eredità politica del cavaliere rischia di essere fuori luogo.
I voti, la parte più preziosa del lascito, sono già finiti da un pezzo da un’altra parte. Senza che nessuno potesse impedirlo. Nemmeno lo stesso Berlusconi, che in questi anni si è prodigato spesso, e inutilmente, in appelli e richiami al “suo” popolo.
Le idee fondanti della «rivoluzione liberale» propugnata dal cavaliere all’atto della sua «discesa in campo» sono invece letteralmente scomparse dalla scena. Giorgia Meloni è una nazionalista euro-scettica, costretta dalla realpolitik a mantenere un atteggiamento dialogante con Bruxelles, ma incapace - per cultura politica e per convincimento personale - di uscire dal perimetro soffocante del «patriottismo», declinato in tutte le forme possibili. Matteo Salvini, invece, ha dissipato ormai quasi per intero il patrimonio di consenso che gli era piovuto addosso durante la breve parentesi del governo con il Movimento 5 Stelle ed è di nuovo costretto a rendere conto alla frazione più autonomista della Lega, la quale spinge con forza verso una definitiva frammentazione istituzionale.
La possibile fusione
Nonostante la continua emorragia di voti, Silvio Berlusconi - anche da junior partner della coalizione - riusciva a fare da collante e ad evitare spinte centripete. Lo ha detto lo stesso Salvini, pochi istanti dopo aver saputo della morte del cavaliere: «Adesso sarà tutto più difficile».
Come ha scritto ieri il Corriere della Sera, «lo schema di una coalizione con un grande partito di destra (Fratelli d’Italia, ndr), uno identitario come la Lega e uno moderato come Forza Italia, entrambi sull’8% ma essenziali, difficilmente reggerà. L’appuntamento che un po’ tutti tacitamente si erano dati erano le Europee del 2024, quando si sarebbero pesate le forze». Ma la morte di Berlusconi ha cambiato lo scenario. E accelerato l’ipotesi di una sorta di fusione degli azzurri con Fratelli d’Italia in un partito neo-conservatore da far confluire nella grande famiglia dei popolari europei.
L’ex ministro Giuliano Urbani, uno dei fondatori di Forza Italia e tra i primi e più ascoltati consiglieri politici del cavaliere, ne è certo: «Forza Italia non sopravviverà a Berlusconi, i suoi elettori sono già con Giorgia Meloni».
Il partito personale
Intervistato da Repubblica, lo stesso Urbani dà una lettura senza appello del movimento politico che contribuì a costruire come «partito liberale di massa» per poi vederlo trasformato in un partito personale, un partito azienda.
«Forza Italia non è mai stata un partito e soltanto in parte un movimento politico, è stata poco più di un comitato elettorale - dice Urbani - l’errore strategico è stato di non creare un partito contendibile, in democrazia non ha senso. E di non lavorare mai per una successione all’altezza: Berlusconi l’ha tenuta a bagnomaria, affidandosi a persone perbene ma politicamente irrilevanti. Ha spesso preferito maggiordomi a collaboratori in grado di succedergli. Il cavaliere ha avuto giuste intuizioni, ma è stato tradito dal suo solipsismo».
Il partito personale, in effetti, sarebbe potuto passare di mano unicamente se Marina, la primogenita di Berlusconi, avesse ceduto alle molte pressioni del padre e si fosse decisa a mollare le aziende per continuare nella “impresa” politica. Così non è stato. E adesso, probabilmente, è troppo tardi perché ciò accada.
In realtà, fino all’ultimo istante Silvio Berlusconi ha rifiutato ostinatamente l’idea di uscire di scena, anche a costo di mettere in mostra l’inevitabile decadimento fisico.
Nella società dell’immagine il corpo del leader - è stato spiegato fino alla noia - incide tanto quanto le idee sull’immaginario collettivo. Berlusconi avrebbe potuto affidare ad altri la «missione» che si era dato, avrebbe potuto passare la mano senza uscire totalmente di scena. Ma non l’ha mai fatto. Semplicemente, perché pensava di essere insostituibile. E perché non aveva alcuna fiducia nei nuovi leader del centrodestra, Giorgia Meloni e Matteo Salvini.
Nel salotto di Lilli Gruber, lunedì sera, su La 7, Michele Santoro ha raccontato l’ultima sua conversazione telefonica con Berlusconi, avuta pochi giorni fa. E ha confermato quanto tutti, a Roma, sapevano e sanno: il giudizio tranchant del cavaliere verso la premier e la quasi totalità dei ministri. Berlusconi era convinto di poterli ancora guidare, indirizzare, correggere. Ma il tempo gli ha detto di no.