«L’invasione di Bush dell’Iraq nel 2003 pesa ancora oggi su tutto l’Occdente»

In Iraq prosegue la rivolta popolare che ha già causato diverse centinaia di morti. Parliamo di questa ed altre crisi con Maria Cuffaro, giornalista della RAI inviata di guerra nel martoriato Paese mediorientale durante l’invasione USA del 2003-05. La collega mercoledì 22 gennaio alle 20.30 sarà ospite del Teatro San Materno di Ascona per parlare del suo libro «Kajal Le vite degli altri e la mia».
L’Iraq dei nostri giorni, con le proteste popolari represse nel sangue ricorda il caos del dopo invasione USA. Quali le cause di questo deterioramento?
«In realtà gli iracheni non sono mai usciti da una situazione di guerra interna. Prima vi è stata l’invasione del 2003 (da parte di USA e Regno Unito ndr), che secondo me è stato il più grosso errore di Bush, che poi l’Occidente ha pagato negli ultimi vent’anni e continueremo a pagare. Poi tolto Saddam non vi era un progetto su come riorganizzare il Paese, per cui gli americani sono rimasti in Iraq favorendo una governance a guida sciita estremamente corrotta che ha marginalizzato i sunniti. Poi c’è stato al-Zarqawi (uno dei leader più importanti di al-Qaeda ndr), e infine è arrivato l’ISIS. Oggi per la prima volta in Iraq abbiamo una piazza unita di ragazzi che chiede un cambiamento, ed è stata spianata dalle forze di sicurezza che hanno causato oltre 500 morti. E come se non bastasse ora l’Iraq diventerà il primo teatro di scontro della guerra tra Iran e Stati Uniti».
A proposito delle nuove tensioni tra USA e Iran, che effetto avrà la messa in guardia di Trump all’ala più radicale del regime di Teheran, concretizzatasi con l’uccisione del generale Soleimani?
«Innanzitutto non si è trattato di una messa in guardia ma di un’esecuzione che negli Stati Uniti è stata vista dai democratici come un assassinio che mette gli Stati Uniti e gli americani a rischio, ovunque essi si trovino. Il Partito democratico ha inoltre sottolineato che per una tale azione il presidente avrebbe dovuto chiedere l’autorizzazione al Congresso e invece non lo ha fatto. Molte perplessità sono state avanzate anche all’interno dello stesso Pentagono. Detto questo, l’azione voluta da Trump è un atto che ha contribuito a destabilizzare la situazione. Come dimostrano le decine di vittime che si sono contate negli ultimi giorni in Iraq, nell’ambito di questa guerra a distanza in atto tra Teheran e Washington».
Spostiamo ora lo sguardo sulla crisi libica. In questi ultimi giorni abbiamo assistito a un più deciso intervento dei principali attori europei in ambito diplomatico. Un segnale incoraggiante?
«Ritengo che parlarsi sia sempre un bene, ma se questo porterà dei risultati nell’immediato, credo proprio di no. Il problema della conferenza tenutasi a Berlino (domenica scorsa ndr) è che non si è neppure riusciti a portare i due contendenti libici allo stesso tavolo. C’erano tante stanze dove Haftar ha parlato con la Merkel, dopo essersi fatto negare per due volte. Poi Sarraj (il premier riconosciuto dall’ONU ndr) ha parlato a sua volta con la cancelliera tedesca. Nella foto di gruppo scattata a Berlino vi sono venti persone che rappresentano venti gruppi di interesse. Ognuno si è presentato con una propria agenda, a volte coincidente con quella degli altri interlocutori, ma non sempre. Questo complica molto la situazione».
I principali attori come operano?
«Gli americani sono molto defilati; da quando gli hanno ucciso il console Stevens si sono tirati indietro. Vi sono poi russi e turchi che agiscono nel loro interesse e ciascuno ha le sue colpe. Il trasferimento di 1.200 foreign fighter siriani in Libia potrebbe trasformare questo Paese nel centro di una guerra per procura perenne. Almeno che i principali attori trovino un accordo. Ma gli equilibri saranno sempre precari».