L'analisi

Ma l’attacco di Teheran era «concordato» con il nemico

Il regime degli ayatollah è stato costretto a rispondere per non perdere la faccia con i suoi alleati – Il tentativo sin qui fallito di egemonia regionale da parte dell'Iran
© ABEDIN TAHERKENAREH
Dario Campione
16.04.2024 22:00

Una risposta inevitabile, un fallimento annunciato, forse addirittura voluto dal regime degli ayatollah. Il massiccio attacco missilistico sferrato dall’Iran contro Israele sabato notte ha aperto una serie di scenari, anche molto diversi tra loro. Sul piano strettamente militare e su quello più ampio della geopolitica.

Intervistato da Le Monde, il politologo dell’Università di Ginevra Hasni Abidi, direttore del Centro per gli studi e le ricerche sul mondo arabo e mediterraneo, ha spiegato chiaramente come l’Iran abbia voluto assicurarsi «che americani e israeliani fossero abbastanza preparati da assorbire gli attacchi». E lo abbia fatto ripetendo quasi ossessivamente, nelle ore precedenti al lancio di droni e razzi, che si sarebbe trattato di «un attacco misurato e non di un attacco a sorpresa».

Mai, insomma, “vendetta” fu più sbandierata, manifesta e comunicata in anticipo di quella messa in atto da Teheran. Inevitabile, allora, chiedersi perché.

«Il motivo è chiaro: si è trattato di una decisione che non volevano prendere, ma il ritmo dell’umiliazione stava diventando difficile da gestire», ha detto sempre a Le Monde un altro analista, Emile Hokayem, esperto di Medio Oriente dell’International Institute for Strategic Studies di Londra.

In sostanza, bombardando la sede diplomatica di Damasco, Israele ha costretto l’Iran a uscire dalla «zona grigia» della proxy war, della guerra fatta combattere da altri - i miliziani di Hamas o di Hezbollah, gli Houthi - al proprio posto. E Teheran si è trovata di fronte a un vero e proprio dilemma strategico: vendicarsi, con il rischio di provocare uno scontro aperto con lo Stato ebraico, o perdere credibilità con i suoi alleati.

«Sicuramente, l’Iran è stata costretta a dare un segnale dopo l’attacco in Siria - dice al Corriere del Ticino Elisa Ada Giunchi, ordinaria di Storia e Istituzioni dei Paesi musulmani alla Statale di Milano - ma ha scelto un segnale misurato e forse persino concordato con gli stessi Stati Uniti». Una risposta che facesse capire come il regime degli ayatollah «non fosse disposto a entrare in guerra».

In questo momento, l’Iran non riesce nemmeno ad assicurarsi la solidarietà degli altri Paesi islamici. I quali, ricorda la professoressa Giunchi, «intendono mantenere i buoni rapporti instaurati sia con Israele sia con gli Stati Uniti».

Sembra quindi andare a vuoto il tentativo di Teheran di dare un perimetro allo «spazio di senso islamico, di egemonizzare cioè l’islam religioso. Uno sforzo che nasconde probabilmente il vero obiettivo, vale a dire l’egemonizzazione politico-regionale, compiuta in diretta concorrenza con Arabia Saudita e Turchia».

Nella «competizione tra Paesi che cercano e rivendicano un ruolo regionale - dice ancora la studiosa milanese - l’Iran ha acquisito un ruolo importante, soprattutto dopo la sconfitta del regime di Saddam Hussein. Tuttavia, rimane isolato, pur avendo potenzialità enormi». Un isolamento che, a detta di Giunchi, non può essere spiegato facendo ricorso alla divisione tra sciiti e sunniti. «Non è una questione di fede, al di là del fatto che le differenze culturali tra arabi e persiani sono e restano profonde». È più solida la motivazione politica. Per quanto, conclude la docente della Statale, «il discorso settario non possa essere sottovalutato. Quando viene messo in moto, infatti, è difficile disattivarlo, soprattutto tra la popolazione, perché basato sempre su un linguaggio emotivo».