L'intervista

«#Metoo fattore di cambiamento, ma c’è ancora moltissimo da fare»

A tu per tu con Giulia Blasi, giornalista e scrittrice specializzata in tematiche di genere e diritti civili
©YONHAP
Dario Campione
23.05.2024 06:00

Giulia Blasi, giornalista, scrittrice e conduttrice radiofonica, è una delle voci più note del femminismo italiano ed europeo. Specializzata in tematiche di genere e diritti civili, ha condotto alcune campagne di sensibilizzazione sul tema della discriminazione delle donne ed è l’ideatrice dell’hashtag #quellavoltache, versione in lingua italiana del #metoo americano.

Partiamo dallo stato dell'arte: che cosa è successo da quando è esploso il #metoo? Si può tracciare un bilancio?
«È successo che alcune cose sono cambiate, ma non moltissime e non in maniera radicale. È cresciuta la discussione sulle molestie e sulle violenze sessuali, ma non abbastanza. D’altronde, sono trascorsi quasi 7 anni e ne stiamo ancora parlando. Il fatto è che l’effetto ottenuto è stato del tutto incidentale. Il lancio dello slogan non era orientato a un risultato. Non era qualcosa fatta pensando di cambiare il mondo. Nessuno si aspettava alcunché. In quel momento si voleva unicamente dare un messaggio. Tutto ciò che è arrivato dopo è stato imprevisto e, in fondo, non del tutto governabile».

È indubbio, però, che un segno è stato lasciato. E anche profondo.
«Ma sì, certo. Il #metoo rimane nella storia del pensiero collettivo. Adesso, quando si parla di molestie o di violenza sessuale, inevitabilmente salta fuori. E quindi ha un valore in sé. Detto questo, è difficile misurare un’eredità in senso generale, perché ogni Paese, ogni cultura, ogni collettività ha reagito in maniera diversa. In Cina ha preso piede a distanza di molti anni. In Spagna o in Francia sono state approvate leggi sul consenso esplicito della donna, mentre in Italia ancora nulla è cambiato, se non l’allungamento dei tempi per la denuncia di violenza».

Una modifica del Codice Penale è stata votata anche dalle Camere federali elvetiche.
«Certo. Però quasi ovunque il clima culturale non è cambiato. Di fronte a una classe politica molto tradizionalista, è difficile intervenire in modo netto, chiaro. Purtroppo, i conservatori ritengono che la violenza maschile sulle donne sia quasi inevitabile, qualcosa da cui ci si può difendere ma sulla quale è inutile fare prevenzione. Persistono resistenze molto forti all'idea che gli uomini debbano cambiare i propri comportamenti, qualcuno arriva persino a dire che norme di questo tipo possono distruggere la santità della famiglia, considerazioni che giudico assurde».

Nel reticolo sociale più diffuso, almeno tra i più giovani, sta però passando il messaggio della necessità di un maggiore rispetto reciproco.
«Molto a macchia di leopardo. Nella realtà che osservo più da vicino, quella italiana, ci sono sicuramente momenti di risveglio: degli uomini che prendono coscienza delle proprie responsabilità; e delle donne che prendono coscienza dei propri diritti, E tuttavia, assieme a questo si tocca con mano un’ondata di revanscismo maschile rispetto alle questioni di genere. Paradossalmente, i maschi da un lato si liberano, dall’altro diventano più conservatori. A tutte le latitudini, ogniqualvolta i femminismi o le comunità LGBTQ+, in qualche modo, ottengono risultati e cominciano ad avere un po’ di attenzione o un po’ di volume dal punto di vista sociale, la reazione maschile è sempre identica, sempre la stessa: un arroccamento, a difesa dei vecchi privilegi. E l’esplosione di nuove forme di violenza verbale».

Sta pensando alle discussioni sull’uso di una lingua più inclusiva, al superamento del neutro maschile o all’uso della schwa?
«Sì, ma non solo. Il discorso è un po’ più complesso. Posso capire le persone che avvertono un moto di rigetto nei confronti delle soluzioni già proposte: perché sono abitudinarie o conservatrici, o perché non le trovano adeguate. Ci può stare. Quella che non capisco è l’opposizione ideologica al cambiamento, non ritenere cioè necessario superare il maschile universale. Chi ragiona così semplicemente non accetta il cambiamento e giudica inutile adattare la lingua a una realtà che rifugge. Pensa che sia come violentare una lingua che non userà e che combatte».

Tutto si gioca sull’assenza di una realtà condivisa, sul rifiuto ostinato di alcuni di accettare il cambiamento. Finché accadrà, ci saranno persone per le quali i trans sono errori di sistema

In Svizzera, dopo la vittoria di Nemo all’Eurovision, si è scatenato un dibattito che ha molti punti di contatto con lo scenario che lei delinea. Di fronte a una realtà nuova, c’è chi la contrasta giudicandola innaturale e chi accusa una parte politica di voler addirittura imporre forme di pensiero unico.
«Tutto si gioca sull’assenza di una realtà condivisa, sul rifiuto ostinato di alcuni di accettare il cambiamento. Finché accadrà, ci saranno persone per le quali i trans sono errori di sistema, o addirittura espressioni di una depravazione, di una scelta sbagliata, individui infelici che possono stare soltanto ai margini. Non parliamo poi delle persone non binarie, le quali hanno bisogno molto più di altre di un riconoscimento, anche a livello grammaticale».

Al festival di Cannes, in questi giorni, è stata presentata una petizione firmata da molte attrici e donne del cinema in cui si dice, tra le altre cose, che «la violenza sessista e la violenza sessuale sono sistemiche» non eccezionali. Che ne pensa?
 «Penso che sia vero. La violenza non è un incidente del sistema, ne fa parte. Perché è l’unico modo per controllare chi deve rimanere in posizione sottomessa. Dove non si arriva con la seduzione, ovvero con la retorica che tenta di far diventare l’oppressione desiderabile, si torna alla violenza. Pensiamo alla retorica sulla maternità: è molto seduttiva, si dice alle donne che saranno “complete” soltanto se e quando avranno figli. Non è vero. La maternità è gioia, certo. Ma anche fatica, sacrificio. Così, quando non si riesce più a tenere le donne ferme con la retorica, entra in gioco la violenza: verbale, minacciata, agìta: “non uscire perché sennò non sai che ti succede”, “non ti vestire così perché è sconveniente”, “non andare in quel locale o in quella casa”». Con il risultato che, se succede qualcosa, la colpa è della donna».

Ma alla luce di quanto accaduto in questi anni, è possibile immaginare in tempi brevi un possibile cambiamento? Dovremo aspettare di nuovo che negli USA accada qualcosa in grado di scuotere la “vecchia” Europa?
 «Se avremo mai la possibilità di superare questo problema, non sarà agendo sui sintomi, magari con l’educazione, ma cambiando radicalmente il sistema socio-economico. Per questo credo che la spinta al cambiamento difficilmente potrà arrivare dagli Stati Uniti, Paese fortemente radicato nel capitalismo e privo di una tradizione socialista significativa. No, se qualcosa succederà sarà qui, in Europa, dove la tradizione socialista e socialdemocratica ha una dignità diversa, e dove siamo più abituati a pensare allo Stato come a una collettività invece che a una collezione di individui».

Mi sembra di capire, allora, che non sarà un processo semplice, né breve.
«Infatti. Ci vorrà molto tempo e molto lavoro. Le circostanze non sembrano essere favorevoli. In questo momento c’è una grossissima crisi a livello mondiale e c’è un rischio concreto di disgregazione dell’Europa. La Russia di Putin è una minaccia serissima all’integrità e alla libertà dei singoli Stati, anche per le campagne di disinformazione che il Cremlino sta conducendo in vista delle elezioni per il Parlamento europeo. Si parla d’altro, insomma».