Milioni di nuovi contagi in Cina, ma Pechino riapre agli stranieri

Pechino riapre le porte a turisti e uomini d’affari, abolendo dal prossimo 9 gennaio la quarantena obbligatoria anti-Coronavirus. Ma il mondo guarda con paura a quanto sta accadendo in Cina, all’esplosione cioè di una nuova, terribile ondata di contagi seguita alla decisione del Governo di Pechino di interrompere bruscamente la politica “Zero COVID” condotta per tre anni. I dati diffusi a livello locale, filtrati a dispetto del tentativo delle autorità centrali di negare l’evidenza, confermano il dilagare del virus: i nuovi infetti sarebbero centinaia di migliaia ogni giorno, imprecisato il numero dei morti.
Due diversi, ma ugualmente drammatici, reportage pubblicati dal New York Times e dall’Associated Press hanno rivelato le prove di una situazione tragica: dai post sui social media - rapidamente eliminati dalla censura - in cui si vedono decine di sacchi gialli per cadaveri negli obitori ospedalieri, alle varie relazioni provenienti dalle strutture sanitarie periferiche.
Nella città orientale di Qingdao, 10 milioni di abitanti, si conta mezzo milione di nuovi casi ogni giorno. A Dongguan, città con 7 milioni di abitanti nella provincia centrale del Guangdong, il rapporto della commissione sanitaria - pubblicato quattro giorni fa - ha stimato tra 250.000 e 300.000 nuovi casi al giorno. E nella provincia Nord-occidentale dello Shaanxi, i funzionari di Yulin, città in cui vivono poco meno di 4 milioni di persone, hanno segnalato nella sola giornata di venerdì scorso 157.000 contagi. Numeri che ridicolizzano le cifre della commissione sanitaria nazionale cinese, secondo la quale nelle ultime due settimane i casi di COVID in tutto il Paese sarebbero stati meno di 4.000, e solo sette i morti.
La verità, ovviamente, è ben diversa. La britannica Airfinity, una delle società di dati sanitari più importanti in Europa, ha pubblicato oggi un rapporto in cui si parla di oltre oltre 5.000 decessi al giorno in Cina a causa del Coronavirus. E intervistata dalla Reuters, Sonia Jutard-Bourreau, 48 anni, da 10 direttrice medica del Raffles Hospital di Pechino - tra le poche strutture sanitarie private del Paese - ha spiegato come la Cina abbia ristretto la sua classificazione dei decessi correlati al COVID, contando soltanto quelli che contemplano la polmonite causata dal Coronavirus o l’insufficienza respiratoria. «Non è medicina, è politica - ha detto Jutard-Bourreau - Se stanno morendo ora di COVID non si può dire che ciò accade a causa d’altro. Il tasso di mortalità adesso è un numero politico, non medico».
La paura di nuove varianti
L’ondata di COVID-19 in Cina potrebbe scatenare una nuova variante in giro per il mondo? La comunità scientifica non ha certezze in tal senso, ma teme che possa accadere. «La Cina ha una popolazione molto numerosa e l’immunità è limitata. E questo sembra essere il contesto in cui potremmo assistere all’esplosione di una nuova variante - ha detto al New York Times Stuart Campbell Ray, infettivologo della Johns Hopkins University di Baltimora - Ogni nuova infezione offre al Coronavirus la possibilità di mutare e il virus si sta diffondendo rapidamente in Cina». Un Paese di 1,4 miliardi di abitanti, nel quale i tassi di vaccinazione complessivi sono elevati soltanto per la popolazione giovane, ma in cui i livelli di richiamo sono molto bassi. Non solo: i vaccini cinesi si sono dimostrati sin qui decisamente meno efficaci rispetto a quelli mRNA, e dopo un anno la loro capacità di immunizzare è enormemente diminuita. Secondo Shan-Lu Liu, direttore del centro di ricerca sui retrovirus della Ohio State University, «in Cina sono state rilevate molte varianti di omicron esistenti, tra cui la BF7, che è estremamente abile nell’eludere l’immunità e si ritiene che stia guidando l’attuale aumento di contagi». Una grande incognita è se una nuova variante causerà una malattia più grave. Gli esperti affermano che non esiste una ragione biologica intrinseca per cui il virus debba diventare più blando nel tempo. «Gran parte della minore aggressività del COVID sperimentata negli ultimi 6-12 mesi in molte parti del mondo è dovuta all’immunità accumulata attraverso la vaccinazione o l’infezione, non perché il virus è cambiato in gravità», ha aggiunto l’infettivologo di Baltimora.
Restrizioni di India e Giappone
L’ambiguità di Pechino sul numero di contagi e la totale incertezza sulla situazione reale hanno spinto, in ogni caso, alcuni Paesi ad adottare le prime contromisure. I viaggiatori provenienti dalla Cina e in arrivo in Giappone saranno ad esempio obbligati a fare un tampone, e i positivi dovranno sottoporsi a una quarantena di 7 giorni. Lo ha deciso il premier nipponico, Fumio Kishida. Le autorità giapponesi stanno anche valutando di porre un limite al numero dei voli provenienti dalla Cina. «Ci sono timori sulla situazione reale, a causa delle discrepanze tra il numero dei contagi diffusi dal Governo di Pechino e i dati forniti dal settore privato», ha detto oggi Kishida. La decisione del Giappone si aggiunge a quella dell’India che, già da alcuni giorni, ha iniziato a chiedere un test negativo per i viaggiatori provenienti non soltanto dalla Cina, ma anche da altri Paesi, tra i quali Giappone, Corea del Sud e Thailandia, oltre alla regione amministrativa speciale di Hong Kong. In Europa, invece, almeno finora non sono state stabilite dai singoli Stati nuove restrizioni. Tuttavia, alcuni esperti chiedono con insistenza interventi immediati. Intervistato dall’ANSA, Massimo Ciccozzi, ordinario di Epidemiologia e statistica medica all’Università Campus Biomedico di Roma, ha spiegato come «sarebbe necessario introdurre tamponi molecolari per chi arriva dalla Cina, soprattutto in vista del Capodanno cinese», in programma tra il 22 gennaio prossimo. «È antiscientifico e incomprensibile che la Cina non dia i dati sulla diffusione del COVID, ma è grave anche il silenzio dell’Organizzazione mondiale della Sanità su questa scelta. Non vogliono sapere cosa stia realmente succedendo», ha aggiunto Ciccozzi.