«Mio fratello credeva nella libertà: è morto in Ucraina per i suoi ideali»

Un biglietto di sola andata per l’inferno sulla Terra. Quell’Ucraina che dal 24 febbraio è alle prese con l’invasore russo. Benjamin Giorgio Galli, 27.enne italo-olandese originario di Bedero Valcuvia, nel Varesotto, è morto lì dove infuria la guerra. La notizia è arrivata il 20 settembre, ma il ragazzo era in coma da giorni, dopo che i frammenti di una bomba a grappolo lo hanno colpito a sud di Kharkiv. Questa è la versione fornita dalle autorità ai famigliari. Residente a Wintersijk, in Olanda, era partito a marzo per combattere a fianco del popolo ucraino. Ben, come lo chiamavano parenti e amici, aveva deciso di mollare tutto per diventare un foreign fighter, nonostante non avesse una reale preparazione in combattimento. La sua esperienza era perlopiù teorica, fatta di passione per strategie e tecniche militari, softair e videogiochi, ma si era comunque distinto come soldato, ricevendo una menzione d’onore. Per i soldati ucraini Ben è diventato un vero e proprio eroe nazionale, mentre, tra i molti messaggi di cordoglio, sui social network sono arrivati anche insulti feroci. Sabato scorso a Kiev si è tenuta una cerimonia di commemorazione, in attesa che la salma del giovane faccia rientro in Italia per essere sepolta nella cappella di famiglia, ad Abbiate Guazzone. Con Anna Victoria, la sorella di Ben, rimasta in contatto con lui fino agli ultimi tragici giorni, abbiamo cercato di capire cosa possa spingere un ragazzo occidentale ad imbracciare un fucile e sfidare le bombe.
Perché suo fratello
ha deciso di andare in Ucraina a combattere?
«Perché credeva nella libertà: era uno dei suoi ideali. Non apparteneva
a nessuno schieramento politico, per lui la libertà era un diritto inalienabile
delle persone e quindi voleva dare il suo contributo. Ci ha detto: “Io vado in Ucraina”, ha preso ed è partito. Abbiamo provato a dissuaderlo, sia io, che
gli amici, che nostra zia, la donna che lo ha cresciuto e da cui ha abitato nei 7 mesi prima di partire. Le nostre parole non lo
hanno fermato: era molto determinato e ormai aveva preso la sua decisione».
Siete
riusciti a rimanere in contatto mentre Ben era al fronte?
«Ci
sentivamo praticamente tutti i giorni, al telefono o tramite messaggi. Lui mi faceva
vedere la vita in Ucraina attraverso foto e video, mi diceva pure com'era la temperatura. Mi mostrava i paesaggi e
quello che faceva. Ci raccontavamo veramente di tutto».
Le parlava
anche dell’esercito ucraino e dei soldati russi?
«Mi parlava
dei suoi compagni, per lui erano diventati come fratelli. Dei russi non ha mai
detto nulla, non so se avesse avuto interazioni con loro. Credo che volesse tutelare
me e mia zia, cercava in tutti i modi di non farci preoccupare».


Era
consapevole che avrebbe potuto morire da un momento all’altro?
«Ha sempre cercato di farci sapere che stava bene e che era felice delle sue
scelte, anche se noi non le condividevamo. Sapeva quello che stava facendo. Ricordo
che un giorno scrisse a mia zia: “Sei una delle poche persone a cui ho voluto
bene nella mia vita. Se dovesse succedermi qualcosa, ti vorrò sempre bene e
rimarrò nei vostri cuori”. Disse più o meno così, non ricordo le parole esatte».
Come viveva
quel conflitto? Ha mai mostrato timori sull’andamento della guerra?
«Era un uomo
molto forte e determinato. L’unica cosa che sono riuscita a capire è che gli
faceva davvero paura la notte. Quella era la parte più impegnativa della
giornata, perché si trovava nei boschi senza alcuna luce. Sentivo che era
preoccupato quando si trovava completamente al buio, anche se aveva provato a
usare i visori notturni. Aveva tanta paura di notte».
Come avete
saputo della sua morte?
«Mi ha
chiamato il capo plotone, era il 13 settembre. Mi ha detto che Ben era stato
colpito alla testa da un pezzo di ferro volante e che era entrato in coma. Sono stata avvisata tre
giorni dopo che era successo. All’inizio non riuscivo a capire, sono stata male, ho avuto un attacco di panico. Allora ho chiesto a mia mamma, che sa l’inglese
molto meglio di me, di occuparsene lei. Le hanno detto che l'esplosione di una bomba a grappolo gli aveva causato ferite in tutto il corpo, non solo alla
testa. Dopo una settimana di cure è
morto: volevano trasferirlo in Polonia da Kharkiv, ma non lo hanno fatto. Credo che abbiano preso questa decisione perché Ben non sarebbe riuscito a superare il viaggio. Hanno smesso di dargli i medicinali che lo tenevano in coma farmacologico ed è entrato in un coma profondo».


Cosa pensa di questa guerra?
«A me
dispiace per entrambi, perché sia il popolo russo che quello ucraino non la
vogliono questa guerra. Non ho una posizione politica, ma etica: per me è sbagliato uccidere, in ogni caso. Avrebbero dovuto intervenire tempo fa. Non so dire come, forse avrebbero
dovuto ribellarsi al posto di combattere o far capire in qualche modo al mondo che le cose lì non andavano bene. Non si doveva arrivare a un conflitto del genere».
La sua
famiglia ha fatto sapere di voler denunciare gli haters che hanno riversato
fiumi di odio sui social network. Vuole dire qualcosa a queste persone?
«Devono
rispettare il lutto e il dolore di chi ha perso una persona cara. Qualunque sia
il loro orientamento politico, non hanno scusanti. Possono pensarla
diversamente, ma non c’è nessuna giustificazione nell’offendere la memoria di
un ragazzo morto per i suoi ideali».
Per gli ucraini Ben è un eroe della Nazione.
«Gli
ucraini lo considerano un eroe perché ha dato il suo contributo e li ha
aiutati, ma per me lo era già prima. Abbiamo un anno di differenza, è il mio
fratello maggiore, ed è sempre stato il mio eroe, fin da quando ero piccola. Mi
ha sempre difesa e aiutata nelle difficoltà, da quando litigavo con bambine più grandi a quando cadevo dalla bicicletta. Solo fratelli e sorelle che sono cresciuti insieme
possono capire questo tipo di legame».