«Nei salotti europei tante chiacchiere, ma Gaza ha bisogno di azioni concrete»

«La nostra forma di comunicazione sono gli spari». Una decina di giorni fa, il giornale israeliano Haaretz pubblicava le conversazioni avute con alcuni ufficiali e soldati delle Forze di difesa israeliane (IDF) impegnati, nel mese e mezzo precedente, nei pressi degli hub umanitari della Gaza Humanitarian Foundation, l'organizzazione che - sostenuta da Israele e Stati Uniti - gestisce, da fine maggio, la distribuzione di aiuti nella Striscia. Almeno 700 persone, secondo i più recenti dati pubblicati dal ministero della Salute palestinese, sono state uccise mentre cercavano di raggiungere i siti della GHF e diverse migliaia sono state ferite. Numeri, questi, avvalorati dalle testimonianze raccolte da Haaretz fra i soldati israeliani, che hanno parlato di violenze diffuse ai danni di palestinesi, propiziate da «comandanti che hanno ordinato alle truppe di sparare sulla folla per allontanarla o disperderla, anche se era chiaro che non rappresentava una minaccia».
In tempi di pace, e forse ancor più in quelli di guerra, l'informazione gioca un ruolo chiave per la coscienza, collettiva e individuale. Ne abbiamo parlato con Gideon Levy, colonnista di Haaretz, premiato nel 2021 con il massimo riconoscimento giornalistico israeliano, il Sokolov Award.
Dire e sapere
«Mi richiami tra un paio di minuti, il tempo di salire in auto». Quando lo raggiungiamo al telefono, Gideon Levy sta uscendo di casa. È passata una decina di giorni da quando i missili iraniani, rappresaglia per l'offensiva israelo-statunitense, hanno smesso di cadere su Tel Aviv e sulle altre città israeliane. Muoversi è più facile, quando non bisogna considerare tragitti vicini ai bunker. «Quei dodici giorni di guerra con l'Iran sono stati di molto peggiori, sul fronte interno, rispetto agli altri vissuti in un contesto di 21 mesi di conflitto», ci racconta una volta ripresa la chiamata. La sensazione generale, spiega, è che ne sia valsa la pena: «La maggior parte degli israeliani tende a credere che l'attacco contro l'Iran fosse necessario e giustificato. E che si sia concluso con una grande vittoria, dopo che per anni Teheran è stata loro descritta come una minaccia esistenziale». Levy non ne è così sicuro: «Più ci allontaniamo dalla fine di questa breve guerra contro l'Iran, più emergono domande, molte domande, sulla necessità di iniziarla. Non è molto chiaro se ci fosse una minaccia imminente, né se l'attacco abbia portato a qualcosa. Sembra sempre più che non si sia ottenuto nulla».


Certo, un effetto indiscutibile dello scambio di bombe e missili fra le due potenze regionali è stato lo spostamento di attenzione della stampa, tornata solo nell'ultima settimana sulla Striscia di Gaza. Dall'enclave palestinese, non è una novità, l'informazione arriva con il contagocce: Israele nega ai media internazionali l'accesso al territorio assediato e circa duecento fra giornalisti e operatori media locali sono stati uccisi dalle forze di Tel Aviv in quello che è già il conflitto più mortale di sempre per i reporter. Inchieste come quella pubblicata da Haaretz reindirizzano il focus mondiale. Ma quello della popolazione israeliana? «Anche nei più piccoli villaggi delle Alpi, un cittadino svizzero vede e sa che cosa stia accadendo a Gaza più di qualsiasi intellettuale di Tel Aviv». Sembra una battuta, un modo per burlarsi, contemporaneamente, dei bucolici ritmi elvetici e dell’élite israeliana. Ma non c'è traccia di ironia nei toni del giornalista. «Molti media israeliani hanno evitato, volontariamente, di raccontare la storia di Gaza, decidendo di non informare gli israeliani su nulla. E gli israeliani stessi non vogliono sapere: vogliono continuare a credere di possedere l'esercito più morale del mondo. Si tratta di una coalizione di interessi. Da una parte c’è chi non vuol dire, dall’altra c’è chi non vuol sapere». Levy fa una pausa di qualche secondo, poi riprende: «Ed eccoci qui. In un momento in cui quasi 100 palestinesi innocenti vengono uccisi ogni giorno e in Israele non se ne sente quasi parlare».
Gli effetti del 7 ottobre
Secondo un sondaggio della Penn State University condotto nel mese di marzo fra gli ebrei di Israele - escluse, quindi, le comunità arabe israeliane -, l'82% della popolazione è a favore dell'espulsione dei palestinesi dalla Striscia di Gaza. Altri studi hanno mostrato tendenze simili: un sondaggio per Channel 13 di inizio febbraio (quindi subito dopo la proposta avanza dal presidente USA Donald Trump per una «Riviera del Medio Oriente» da costruire a Gaza) il 72% degli israeliani ha sostenuto il piano per «esiliare i palestinesi», nelle parole usate dall'emittente. I risultati ottenuti dall'Università di Tel Aviv sono più bassi, ma comunque superiori al 50%. Tutti dati, questi, che sono stati accolti con shock dall'ala moderata israeliana: davvero il numero favorevole al trasferimento forzato dei palestinesi è divenuto così alto? Come un metronomo, il ticchettio delle frecce dell'auto dà il tempo alla risposta di Levy. «Il 7 ottobre 2023 ha cambiato Israele in modo drammatico, in due modi molto distruttivi. Dopo le terribili atrocità» commesse da Hamas il 7 ottobre, spiega il giornalista, «quasi tutti gli israeliani pensano che Israele abbia il diritto di fare ciò che vuole con la Striscia, senza limiti morali, senza limiti legali. Altra conseguenza dell'attacco, il fatto che dopo il 7 ottobre non ci sia più spazio per alcun tipo di umanità o empatia in Israele verso i palestinesi di Gaza. Non si può condurre una guerra del genere affrontando la verità: bisogna inventare una realtà alternativa che la giustifichi. Un mondo in cui non ci siano persone innocenti a Gaza - compresi i bambini - e, quindi, nessuna necessità di provare solidarietà». La voce di Levy, sin qui un fiume in piena, diventa un rigagnolo: «Abbiamo perso il senso dell'umanità».
Il ruolo dell'informazione
L'informazione gioca un ruolo chiave per la coscienza, collettiva e individuale, dicevamo. Una consapevolezza trasmessa dal giornalista di Haaretz al telefono. «Penso sia la prima guerra in assoluto della quale ai giornalisti non sia stato permesso per mesi - anni! - di proporre alcuna copertura. Sono davvero sorpreso dalla passività dei media internazionali, del fatto che non protestino più veementemente contro di essa. È qualcosa senza precedenti, anche se negli ultimi 18 anni, già prima della guerra, ai giornalisti israeliani non era concesso andare a Gaza», ricorda Levy, lanciando, quasi, un appello alla testimonianza: «Come giornalisti, dobbiamo raccontare la piena verità su Gaza ogni giorno. Ricordare ai lettori, al pubblico, ai telespettatori, che c'è un massacro in corso a un'ora da Tel Aviv».
In Israele la sensibilizzazione avviene anche tramite numerosi movimenti di base, come Breaking the Silence e Standing Together, che cercano di promuovere una coesistenza pacifica fra ebrei israeliani e palestinesi. «Sì, esistono movimenti coraggiosi che toccano davvero il nocciolo della questione: l'occupazione e l'apartheid. Ma sono organizzazioni delegittimate, piccole, con pochissima influenza sulla società israeliana, se mai ce l'hanno».


Doveri
La politica europea, nel frattempo, sta facendo fatica a venire a patti con la situazione. Come vegliare sul rispetto del diritto internazionale e, contemporaneamente, assicurarsi che dietro le - a tratti - forti critiche a Tel Aviv non si nascondano motivazioni antisemite? Riflettendo - verso fine chiamata - sulla difficile posizione occidentale, Levy ci spiega: «L'antisemitismo esiste e va combattuto e condannato. Non c'è dubbio, questa guerra lo ha alimentato nel mondo. Il governo israeliano, però, da molti anni ormai etichetta ogni critica a Israele come antisemitismo. E anche questo è distruttivo. Credo che oggi la maggior parte dei critici di Israele siano persone di coscienza che non hanno nulla a che fare con l'antisemitismo». Levy si ferma, poi sottolinea: «La maggior parte, non tutti». In ogni caso, secondo il giornalista, il silenzio non è accettabile: «Oggi criticare la guerra a Gaza non è un diritto. È un dovere di ogni essere umano».
Certo, non tutti sono rimasti a guardare. Negli ultimi due anni, alcuni Paesi europei hanno riconosciuto lo Stato di Palestina. Altri hanno espresso il proprio impegno per una soluzione a due Stati, ricordiamo al nostro interlocutore. «No, no, è ridicolo. Questo non è tempo per appelli, né per condanne. È tempo di azioni. Tutto ciò che la comunità internazionale ha fatto, ad esempio, nei confronti dell'apartheid in Sudafrica dovrebbe essere applicato ora qui, in Israele», ci spiega facendo riferimento al sistema di sanzioni e boicottaggio. «Qualsiasi altra mossa verrà completamente ignorata da Israele». Questa volta, Levy non ci risparmia un commento caustico: «Chiedere la soluzione a due Stati suona bene nei salotti europei, ma non cambierà nulla. Ora si tratta di prendere misure per fermare la guerra: misure pratiche, non chiacchiere».