«Nel 2021 fiume di armi nel mondo e guerre con 150 mila vittime»

Il 2021 è stato un anno caratterizzato da numerosi conflitti e da crescenti tensioni tra le grandi potenze. Stiamo andando verso un mondo sempre più segnato dalle guerre? Abbiamo intervistato il professor Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell’istituto di ricerche internazionali «Archivio Disarmo», per fare il punto della situazione.
In questi giorni la Russia ha lanciato un missile capace di colpire un obiettivo a mille chilometri di distanza. Il 2021 ha confermato la corsa agli armamenti?
«Sì, è già da alcuni anni che siamo in quella che viene definita la seconda Guerra fredda. Va comunque notato che il ruolo della Russia appare marginale rispetto a quello del gigante cinese. Tant’è vero che nei lanci pubblicitari di alcune industrie degli armamenti vi è chi parla di nuovi materiali bellici per la guerra del Pacifico. Effettivamente è nell’area del Pacifico che si sta concentrando circa la metà delle esportazioni di armi, mentre un terzo si dirigono verso Medio Oriente e Nord Africa. Il recente accordo AUKUS tra Australia, Gran Bretagna e USA conferma l’interesse per l’area del Pacifico, così come la fornitura di sottomarini nucleari all’Australia da parte di Washington».
Mentre la Russia che ruolo sta giocando?
«La Russia rimane un soggetto scomodo sul teatro europeo, ma non ha una potenza militare paragonabile a quella degli Stati Uniti, mentre è evidente la crescita della potenza militare cinese che sta diventando la grande antagonista della superpotenza militare USA. Il 2021 ci ha comunque insegnato che anche le grandi potenze militari possono essere sconfitte da eserciti armati a livelli molto inferiori, come abbiamo visto in Afghanistan con il successo dei talebani nello scontro con le truppe americane. E questo dovrebbe far riflettere a livello internazionale, visto che assistiamo allo sviluppo di armi sempre più sofisticate da parte delle principali potenze mondiali per darsi una sicurezza che poi, nei fatti, può mostrarsi effimera».
È preoccupante anche l’estensione dei conflitti in Africa, a cominciare dal Sahel dove la Francia, pur essendo una potenza regionale, appare in difficoltà.
«Sicuramente. L’Africa rimane l’area più instabile del pianeta, con il maggior numero di conflitti e la maggiore potenza di fuoco. Vediamo cosa sta accadendo in Etiopia, Burkina Faso, Camerun, Ciad, Libia, Mali e Sudan, solo per citare alcuni dei Paesi in guerra. In quest’area del mondo abbiamo conflitti di varia intensità di cui è difficile stimare il numero delle vittime in quanto gli scontri spesso avvengono in zone periferiche dove spesso non ci sono testimoni e giornalisti in grado di fornire informazioni. Comunque cifre globali oggi a disposizione parlano, per il 2021, di circa 150 mila vittime in tutto il mondo».
In Africa le tradizionali guerre locali per il controllo delle risorse sono state esacerbate dalla crescente penetrazione di nuove potenze?
«Effettivamente l’instabilità tradizionale dell’Africa, legata agli scontri per il controllo delle grandi ricchezze minerarie presenti in diversi Paesi ha creato spazio all’ingerenza da parte di diverse potenze straniere, come la Francia, interessate in particolare a petrolio, uranio e terre rare. Per valutare le conseguenze basta pensare a quanto è accaduto in Libia con l’intervento di eserciti stranieri. Mentre la Cina, per ora, in Africa ha condotto sostanzialmente una penetrazione di tipo economico-finanziario».
Qual è invece il ruolo dell’estremismo islamico nei conflitti a cui assistiamo?
«Ai tempi di Saddam e di Gheddafi in Iraq e Libia non vi era spazio per l’estremismo islamico. Con la rimozione di questi due dittatori il fondamentalismo islamico si è insediato in queste aree contribuendo a favorire situazioni di anarchia crescente. I terroristi islamici attivi nella regione hanno la capacità di muoversi su uno scacchiere molto più ampio rispetto ai confini del singolo Paese, per cui vi sono estremisti che si spostano dalla Siria all’Iraq, o per raggiungere anche l’Africa. Ciò crea una sorta di internazionale dell’estremismo islamico che si muove in parallelo con il commercio clandestino di armamenti».