Nella Cina del «monarca» Xi Jinping il Partito Comunista è sempre più forte

È destino che il XX congresso debba lasciare il segno nella storia dei Partiti comunisti. Così è stato in Russia, dove il XX congresso del PCUS, nel febbraio del 1956, passò alla storia per il discorso segreto di Nikita Chrušèëv e l’avvio del processo di destalinizzazione. Così è stato in Cina, dove il XX congresso del PCC, nell’ottobre dello scorso anno, ha concesso il terzo mandato di segretario generale a Xi Jinping, di fatto ponendo le basi necessarie a sorreggere il potere personale e quasi assoluto del 70.enne leader asiatico.
Non è stato quindi una sorpresa, oggi, il plebiscito con cui il Congresso nazionale del popolo, l’assemblea legislativa cinese, ha incoronato per la terza volta lo stesso Xi presidente della Repubblica e presidente della Commissione militare centrale, vale a dire capo delle forze armate.
Difficile dire se l’esito del voto - 2.952 a favore, 0 contrari - sia stato più incredibile che grottesco. Nel 2018, in occasione delle modifiche costituzionali che abolivano il limite dei due mandati per la carica di presidente della Repubblica popolare, tre delegati si astennero e due, addirittura, osarono opporsi, votare contro. Paradossalmente rendendo (in parte) più vera la procedura.
Oggi il dissenso è stato completamente azzerato. «Il nuovo mandato di Xi e la nomina di lealisti ai vertici del Paese - ha scritto l’Associated Press - sottolineano il monopolio quasi totale del leader sul potere politico cinese ed eliminano ogni potenziale opposizione al suo programma ipernazionalista; programma che intende trasformare la Cina nel principale rivale politico, militare ed economico degli Stati Uniti e mettere Pechino a capo del blocco che si contrappone all’ordine mondiale democratico guidato da Washington».
Nuovi equilibri
Sarebbe sbagliato, tuttavia, pensare che il voto del Congresso nazionale del popolo sia stato soltanto uno scontato rituale. Non è così. Tutti gli osservatori concordano infatti su un punto: la terza elezione di Xi a presidente della Repubblica è servita a ribadire la supremazia del partito sullo Stato. E a favorire il definitivo ritorno al passato.
Tre anni di pandemia, la crisi economico-sociale legata alla fallimentare strategia COVID-zero, la guerra in Ucraina, l’intensificarsi della rivalità commerciale e tecnologica con l’Occidente, hanno costretto la Cina ad avviare una profonda revisione delle proprie scelte politiche. In particolare di quelle prese nella direzione di una timida apertura all’iniziativa privata. E hanno accelerato i cambiamenti voluti da Xi per centralizzare il controllo del Partito Comunista su tutto il governo.
Xi Jinping ha spinto verso un ulteriore riequilibrio a favore del dirigismo pubblico, allontanandosi ancora di più dalle posizioni assunte nei decenni trascorsi dai predecessori Deng Xiaoping e Jiang Zemin.
Su questo ha pesato in modo enorme, anche se può sembrare paradossale, la rivoluzione digitale. Martedì scorso la Cina ha annunciato la costruzione di un National Data Bureau, confermando di voler impegnarsi a fondo nella battaglia dei Big Data, i dati dell’intelligenza artificiale, visti come motori fondamentali e spina dorsale della propria futura economia. Gli stessi dati che continuano a sollevare grandi questioni nei rapporti con i Paesi occidentali, come dimostra la vicenda legata ai divieti di installazione di TikTok sui telefonini dei funzionari di molti Governi europei e nordamericani. Le informazioni digitali, fondamentali per lo sviluppo di tecnologie all’avanguardia, sono viste dalle autorità di Pechino anche (e soprattutto) come una risorsa strategica per la sicurezza. Una risorsa che deve essere attentamente e maniacalmente controllata.
Nei 10 anni in cui è stato al potere, Xi Jinping ha imposto il controllo dello Stato sui dati proprio in nome della sicurezza nazionale. A tutti è noto il livello capillare cui è giunto il sistema cinese di videosorveglianza e di riconoscimento facciale. Nel 2021 la Cina ha pure introdotto nuove regole che disciplinano il modo in cui le aziende raccolgono e gestiscono i dati. Ma gli analisti si aspettano che la supervisione delle informazioni personali e della sicurezza informatica rimanga per lo più di competenza della Cyberspace Administration of China, il potente cane da guardia di Internet che oscura ogni pagina Web sgradita al regime.
L'ascesa dei lealisti
Il terzo mandato di Xi Jinping si accompagna all’ascesa ai vertici dello Stato di molti «lealisti». Uomini, fedelissimi del leader ,ai quali sarà affidato il compito di cercare l’autosufficienza nelle tecnologie strategiche per contrastare quella che Xi ha descritto come una campagna di «contenimento, accerchiamento e repressione a tutto tondo» ideata dagli Stati Uniti contro la Cina.
Il più potente (ma anche il più esposto) di questi uomini sarà Li Qiang, 63 anni, destinato a diventare tra poche ore premier al posto di Li Keqiang. In qualità di primo ministro (e di numero 2 del Partito), Li guiderà il Governo del Paese ed eserciterà ampia autorità sulla politica economica.
Secondo il New York Times, che riporta le considerazioni di alcuni analisti, Li Qiang potrebbe svolgere un ruolo più ampio, anche se non necessariamente più influente, del suo predecessore. Già segretario del Partito a Shanghai, Li ha conosciuto Xi Jinping quando questi era a capo della provincia di Zhejiang, nel Sud-Est della Cina. È quindi considerato un alleato di lunga data del leader, che lo avrebbe promosso in considerazione della lealtà dimostrata negli anni.