Non c’è solo Djokovic: l’Australia e quei rifugiati dimenticati

Non chiamatelo albergo. Gli ospiti del Park Hotel, a Melbourne, non sono viaggiatori d’affari né turisti. C’è un giocatore di tennis, Novak Djokovic. Il più forte del ranking ATP. Ma ci sono soprattutto rifugiati e richiedenti l’asilo. Sognavano una vita diversa. Un nuovo inizio. In Australia. Si ritrovano confinati e, per certi versi, condannati da un Paese che – al contrario – dovrebbe proteggerli. Le loro storie, tremende, stanno emergendo con forza in questi giorni. E il merito, paradossalmente, è proprio di «Nole». Senza la sua sceneggiata, gli occhi del mondo non si sarebbero posati su questa struttura, una sintesi perfetta della politica australiana in materia di asilo e immigrazione. È «una vergogna nazionale», sintetizzano alcuni attivisti.
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L’Australia, va da sé, ne avrebbe fatto volentieri a meno. Gli attivisti stanno sfruttando la presenza del campione serbo per spostare l’attenzione. Ovvero, mentre parlate degli Australian Open, dello status vaccinale di Djokovic e della battaglia politico-legale in atto, guardate che cosa succede agli altri, sfortunati inquilini del Park Hotel.
Uno di loro si chiama Mehdi. La sua storia, nelle scorse ore, è stata raccolta e raccontata da Vice Magazine. È una storia comune a molti, carica di sofferenze e dolori. Un limbo (oramai) perenne, se pensiamo che il Park Hotel è soltanto l’ultimo di tanti centri «dedicati» in cui Mehdi è stato rinchiuso dal 2013 a oggi. E nessuno sa quando l’Australia lo libererà, riconsegnandogli la dignità e l’umanità perdute. Nessuno lo sa, sebbene Mehdi, come gli altri ospiti, non sia stato formalmente accusato di nessun crimine.
Maledetto limbo
Djokovic, almeno, ha un orizzonte temporale definito. Lunedì conoscerà il suo destino: o scenderà in campo a Melbourne, con l’obiettivo di conquistare il ventunesimo Slam in carriera, oppure tornerà a casa, in Serbia. Per gli altri, invece, la situazione era ed è terribile. Mehdi, ad esempio, si era imbarcato per l’Australia dall’Indonesia, dopo essere scappato dall’Iran. Era il 2013, aveva 15 anni. Fu braccato dalle autorità, condotto a Christmas Island e in seguito a Nauru, che ospita un centro di detenzione australiano. Nel 2019 venne portato in Australia, finalmente, ma solo per motivi medici. Quindi un lungo, lunghissimo rimbalzare qua e là, da un centro all’altro, compreso il Park Hotel. Ha appena compiuto 24 anni, ha passati oltre tremila giorni in detenzione. «Non so se mi rilasceranno domani o chissà quando», spiega. «Posso solo cercare di sopravvivere, ora dopo ora».
È come una prigione
Sopravvivere non è un verbo scelto a caso da Mehdi. Le condizioni del centro di Nauru, ad esempio, sono state paragonate a quelle di una prigione e definite crudeli da Anna Neistat di Amnesty International. Pochi Paesi oltre all’Australia, ha aggiunto, infliggono simili sofferenze alle persone che cercano sicurezza e libertà.
Due concetti, sicurezza e libertà, che mal si sposano con il Park Hotel. Dalle misure anti COVID insufficienti agli incendi, passando per il cibo rancido servito. «È una gabbia», taglia corto Mehdi. «Sei circondato da mura. Non puoi uscire».
È un limbo, appunto. Un luogo-condizione in cui la speranza si mescola alla disperazione, mentre il futuro si stringe ogni giorno di più diventando qualcosa di impossibile o inafferrabile. Così, quelle quattro mura tanto tristi quanto opprimenti alla lunga diventano (quasi) un conforto. L’ideale più simile a una casa che la mente riesca a concepire. Qualcuno, evidentemente, ha ceduto. Altri faticano maledettamente ad allontanare pensieri suicidi. Mehdi, scrive ancora Vice Magazine, soffre di insonnia e disturbo da stress post traumatico. Il suo nemico principale, detto dell’incertezza, è il tempo.
Il distacco delle autorità
Di fronte a così tanto dolore, le autorità hanno mantenuto e mantengono tuttora un distacco notevole. Chi si trova al Park Hotel, banalmente, è perché non è in possesso di un visto o è arrivato in Australia illegalmente, sentenzia il ministro degli Interni Karen Lesley Andrews. Il messaggio al mondo è chiarissimo: in Australia entra solo chi soddisfa i requisiti stabiliti. Lo ha scoperto anche Djokovic, l’ospite inatteso di un albergo-prigione. Ma il prezzo da pagare, per Mehdi e gli altri, è terribilmente più alto.