«Non intendiamo occupare Gaza, vogliamo liberarla da Hamas»

Il dado è tratto. Il gabinetto israeliano, riunito giovedì sera da Benjamin Netanyahu, ha deciso, dopo una discussione durata sino all’alba, di ampliare l’operazione a Gaza e prendere il controllo del 25% della Striscia ancora non coperto dai militari. Una decisione che era nell’aria da giorni, nonostante le perplessità dei militari espresse sin dall’inizio e anche nella riunione (con il sostegno di alcuni ministri), per il rischio che gli ostaggi potrebbero essere uccisi in combattimenti o da Hamas come vendetta e per quello che corrono gli stessi soldati, che tra l’altro sono in numero minore a quelli richiesti. Immagini satellitari mostrano che le truppe israeliane si stanno ammassando ai confini della Striscia per prepararsi. Netanyahu in un commento su X ha tuttavia chiarito che «non intendiamo occupare Gaza, ma liberare Gaza da Hamas, smilitarizzandola e consentendo che ci sia una amministrazione civile pacifica terza che non sia né l’autorità nazionale palestinese né Hamas, né altre organizzazioni terroristiche».
Le tensioni interne
Attualmente, dal controllo dell’esercito nella Striscia restano fuori la città più importante, Gaza City (la cui presa ha un valore politico e strategico importante) e altre, come Deir el Balah, dove si ritiene siano tenuti gli ostaggi. Luoghi che potrebbero diventare il prossimo obiettivo se Hamas non si arrendesse e non liberasse gli israeliani. Cinque i punti del piano approvati a maggioranza, non all’unanimità, dal gabinetto di guerra: disarmare Hamas, liberare tutti gli ostaggi vivi e morti, smilitarizzare la Striscia, porre su di essa un controllo di sicurezza israeliano, favorirne il controllo civile alternativo. Al gabinetto è stato presentato un piano alternativo a questo, probabilmente dai militari, che non è stato approvato perché si è ritenuto non portasse a raggiungere gli obiettivi principali, ovvero sconfiggere Hamas e liberare gli ostaggi. Alcuni ministri, come Ben Gvir e Bezalel Smotrich, si sono opposti al fatto che i cinque punti approvati fossero legati alla fine della guerra. Hamas, che ha lanciato un razzo contro Israele poco prima che iniziasse la riunione, quasi a mostrare i muscoli, ha diffuso un comunicato nel quale ha scritto che Netanyahu sta compiendo «un colpo di Stato» nel mezzo delle negoziazioni, mostrando al contempo la volontà di sacrificare gli ostaggi per i suoi interessi personali, e che qualsiasi governo alternativo al suo, anche arabo, che dovesse prendere Gaza lo considererebbe forza occupante, quindi un nemico. Ha anche detto che l’operazione «non sarà un picnic, non ci sarà resa».
Serviranno alcuni mesi
L’operazione, in effetti, non sarà semplice e durerà alcuni mesi. Nell’area vivono circa un milione di gazawi, anche sfollati da altre città, che saranno obbligati ad andare verso sud. Sia i familiari degli ostaggi che le opposizioni contestano la decisione presa dal gabinetto di sicurezza e molti sono i Paesi e le organizzazioni che chiedono a Israele di fare un passo indietro. Come quando a maggio dell’anno scorso Netanyahu decise di andare avanti con l’operazione a Rafah, a sud, prendendone il controllo. Allora anche l’alleato americano si lamentò, e in tanti chiesero di non farlo. Ma quella operazione portò al controllo quasi totale del sud, degli aiuti e all’ultima tregua, anche se questa non direttamente, visto che è avvenuta dopo oltre sei mesi. Questa volta l’alleato americano sembra più vicino alle decisioni israeliane. Il vicepresidente statunitense J.D. Vance ha detto che l’amministrazione Trump è «in disaccordo» con Israele riguardo alla prosecuzione della guerra a Gaza, nonostante Washington condivida gli obiettivi di Gerusalemme. Per Vance i due obiettivi principali dell’amministrazione USA sono garantire che Hamas non possa continuare ad attaccare persone innocenti e risolvere la crisi umanitaria a Gaza. Da ogni parte arrivano inviti a negoziare, ma Hamas si è ritirato dal tavolo delle trattative, tavolo che è però ancora attivo sia a Doha che al Cairo. Da maggio in poi è stata presentata una nuova proposta di tregua da Israele, attraverso gli USA, che il gruppo che controlla Gaza ha emendato più volte, anche trovando l’accettazione israeliana su alcuni punti, fino a ritirarsi. Tanto che Gerusalemme e Washington hanno deciso di cambiare strategia, non chiedendo più una liberazione a tappe dei cinquanta ostaggi nelle mani di Hamas, ventidue dei quali in vita, ma l’uscita di tutti insieme. Anche i Paesi arabi hanno tentato di fare pressioni: la Lega Araba, con l’Arabia Saudita in testa, ha condannato il massacro del 7 ottobre e ha chiesto a Hamas di disarmarsi e lasciare il controllo della Striscia all’Autorità Palestinese, ma il gruppo di Gaza non vuole saperne.
Il rischio per gli ostaggi
Netanyahu è convinto che, colpendo il centro di gravità di Hamas, potrà mettere più pressioni. Il gruppo islamista ha però dimostrato di non avere a cuore il destino della sua popolazione, figurarsi degli ostaggi e, soprattutto, non vuole abbandonare il controllo di Gaza. Israele, dal canto suo, con l’operazione a Gaza City intende far entrare molti più aiuti da distribuire direttamente ai civili, magari attraverso la Gaza Humanitarian Foundation e non attraverso le Nazioni Unite. Le quali hanno ammesso che, da maggio ad oggi, l’87% dei camion di aiuti che ha raccolto per distribuire i viveri e altri beni, è stato rubato da bande armate e da civili. Hamas utilizza gli aiuti per mantenere il controllo del territorio e soprattutto del mercato, necessitando di soldi per pagare i miliziani. La nuova operazione però metterebbe a serio rischio la vita non solo degli ostaggi, ma anche dei civili palestinesi. A Gaza City e dintorni vive circa un milione di persone. Unione europea, Turchia, Gran Bretagna e altri Paesi stanno chiedendo a Israele di non andare avanti con l’operazione. Nel frattempo diversi Stati hanno richiesto una riunione d’urgenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sull’argomento. La Germania ha detto che non intende più vendere armi a Israele che possano essere usate a Gaza. Un regalo a Hamas, secondo Netanyahu.
Il Libano ha approvato un piano per disarmare Hezbollah
Il gabinetto libanese ha approvato il piano americano per il disarmo di Hezbollah che, entro la fine dell’anno, dovrebbe portare il gruppo sciita a consegnare tutte le sue armi all’esercito di Beirut. Una vera e propria sfida alla milizia legata a doppio filo all’Iran, che ha respinto le richieste di disarmo. Il piano americano prevede che Hezbollah venga, come struttura militare, smantellata e che le sue posizioni nel sud siano prese dall’esercito libanese regolare. Questo permetterebbe non solo il controllo di Beirut su tutto il suo territorio, ma anche richiederebbe il ritiro israeliano dall’area e la cessazione degli attacchi del Paese ebraico, che sono continuati anche oggi contro basi del gruppo sciita. La discussione ha visto i partiti sciiti e quelli legati a Hezbollah lasciare il consesso. Una decisione, quella dell’Esecutivo, impensabile fino a qualche mese fa, quando Hezbollah faceva il bello e il cattivo tempo e dettava i ritmi della vita politica e sociale libanese. L’esercito ha tempo fino alla fine del mese per presentare il suo piano di disarmo del gruppo sciita. A giugno, l’inviato americano Thomas Barrack ha proposto una tabella di marcia ai funzionari libanesi per disarmare pienamente Hezbollah; in cambio di Israele avrebbe fermato i suoi attacchi contro il Libano e ritirato le sue truppe da cinque punti che ancora occupa nel sud del Paese dei cedri. Tale proposta includeva la conditio sine qua non che il governo libanese approvasse una decisione di gabinetto che si impegnava chiaramente a disarmare Hezbollah. Ma l’Esecutivo nicchiava, fino a quando Washington ha perso la pazienza. Da qui le pressioni sui ministri, sul presidente e sul premier di Beirut, affinché si arrivasse alla decisione. Che ha scatenato reazioni diverse nel Paese. Se infatti in molti sono scesi in strada per manifestare il loro appoggio al governo, la base di Hezbollah, soprattutto al sud e all’est del Libano, ha protestato contro la decisione del governo, minacciando di lanciare altre offensive e di non consegnare le armi. Israele è alla finestra e aspetta di vedere se la decisione governativa sarà seguita. Altrimenti, continuerà gli attacchi. Un cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti lo scorso novembre ha posto fine al conflitto tra Hezbollah e Israele, il quale però ha continuato gli attacchi su quelli che dice essere depositi di armi e combattenti di Hezbollah, per lo più nel sud del Libano.