Niente pettegolezzi

Papa Francesco ce lo siamo scordati presto

È emersa dentro la Chiesa una trasversale insofferenza al pontificato di Bergoglio, come se nell’ultimo periodo il suo magistero avesse deluso e il suo percorso due volte «pop» si fosse avvitato su sé stesso
© KEYSTONE (Vatican Media via AP)
Carlo Tecce
17.05.2025 12:48

Morto un Papa ce lo siamo scordati presto. Con una fretta un po’ sospetta. Come se invece di allenarsi con la «parresia», il diritto/dovere di esprimersi con franchezza, in tredici anni di pontificato laici e clero si fossero diplomati, macché, laureati con lode, in «ipocrisia». E per comprendersi non c’è bisogno di citare la definizione del vocabolario.

Morto Papa Francesco, spirato un mese fa dopo una pesante malattia e una pugnace convalescenza, la reazione di molti, non tutti, però molti, è stata quella di immaginarsi, augurarsi, auspicare, pregare per chi crede, in un pontificato, s’è detto, sostanzialmente diverso: pastorale, ma al tempo stesso tradizionale; curiale, ma al tempo stesso democratico. Queste suppliche hanno prodotto, secondo i fautori della geopolitica vaticana e anche di quella, non percettibile, dello Spirito Santo, la nomina del cardinale Prevost al soglio di Pietro col nome storico, e per certi versi tonitruante, di Leone XIV.

Prevost è piaciuto subito perché, e via l’elenco che ha archiviato, superato e infine cancellato Francesco: è un americano del Nord e però non è un americano del Nord; si è formato come missionario fra gli americani del Sud ma rimane un americano del Nord; è un americano del Nord con origini statunitensi, francesi, canadesi, italiane e pure nere; il primo americano del Nord, del Sud, statunitense, francese, canadese, italiano e un po’ nero; il primo Papa appartenente all’ordine religioso degli «agostiniani», da Sant’Agostino, così diversi, e così timidi, tanto riflessivi e soprattutto contemplativi, rispetto ai frenetici gesuiti di Bergoglio; non il primo Papa, ma comunque il primo Papa dopo Bergoglio a tornare a vivere nel palazzo Apostolico; un Papa che saprà coniugare le virtù del pastore con il polso (democratico, certo) del monarca assoluto; per non dilungarci sul Papa tennista, cantante, fantino («raggiungeva i fedeli a cavallo»); dopo una telefonata Zelensky l’ha già invitato in Ucraina; il Vaticano è tornato al centro del mondo con la casacca di mediatore schierato per la «pace giusta». 

C’è da chiedersi, sommessamente, se questo entusiasmo, spontaneo e abbastanza «spintaneo», sia frutto della parresia o della ipocrisia o soltanto, senza soffermarci su discorsi filologici, del sano accorrere in soccorso del vincitore Prevost. Più seriamente, in maniera brusca, quasi violenta, è emersa dentro la Chiesa una trasversale insofferenza al pontificato di Francesco, come se nell’ultimo periodo il suo magistero avesse deluso e il suo percorso due volte «pop», cioè popolare e populista, si fosse avvitato su sé stesso con atti di imperio, confusione giuridica, a tratti anche dogmatica. Leone XIV si inoltra nel suo pontificato con la perfezione dei gesti e la ponderazione delle parole, impeccabile nelle scelte simboliche e lessicali, si muove come se ripetesse lezioni imparate a memoria, non improvvisa nulla, non deraglia con le battute, sembra il miglior studente del corso per Papi. Lo Spirito Santo ci ha visto lungo oppure, semplicemente, Francis Robert Prevost ci ha visto meglio di tutti i suoi colleghi cardinali.