«Perché non denunciamo Mosca? La neutralità è essenziale per il dialogo»

Ariane Bauer, argoviese, è stata a capo dell’ufficio del CICR a Donetsk. Oggi è direttrice regionale dello stesso Comitato internazionale della Croce Rossa per l’Eurasia, ma ha pure il ruolo di guida della cellula di risposta alla crisi legata al conflitto in corso in Ucraina. L’abbiamo incontrata.
Direttrice, lei ha lavorato a lungo in Ucraina, e ancora oggi è direttamente coinvolta da questa guerra. Recentemente ha visitato i territori colpiti dal conflitto.
«Sono entrata nel mio nuovo ruolo lo scorso 2 agosto. La settimana successiva, già ero a Kiev, spostandomi poi sulla linea del fronte, che allora si trovava a Kharkiv. Per me era importante capire in prima persona. Ci tenevo a incontrare le nostre squadre sul posto e dare loro sostegno morale. Hanno vissuto momenti duri. Ci tenevo, allo stesso modo, a vedere direttamente la situazione umanitaria, percepire i bisogni della gente».
In questo momento ha due ruoli e si ritrova a gestire situazioni molto complesse.
«Sì, i ruoli sono due. Da una parte sono direttrice regionale per l’Eurasia - quindi per l’Europa e l’Asia centrale -, il mio ruolo in questo caso è dare un orientamento strategico all’impegno del CICR nella regione. È interessante perché mi ritrovo a lavorare, diplomaticamente, con gli Stati “influenzatori” come Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia, e poi, concretamente, con aree in guerra. Penso a Ucraina e Russia, ma anche al Caucaso, all’Asia centrale, ai Balcani, zone che continuano a essere afflitte dai conflitti e che attendono da noi una risposta operativa. Dall’altra parte, sono stata chiamata a gestire la struttura di crisi relativa a questo conflitto internazionale armato tra Russia e Ucraina. Tale struttura è stata creata per poter offrire risposte rapide sul posto e per dare sostegno continuo alle nostre squadre. Abbiamo aperto, in questo senso, uffici anche nei Paesi vicini ai territori in guerra, quindi in Ungheria, Polonia, Moldavia e Romania».


Qual è esattamente il ruolo di questa cellula di crisi?
«In questa cellula abbiamo coinvolto figure di differenti campi, che lavorano però sugli stessi obiettivi. Da una parte per aiutare per esempio le squadre sul posto a implementare i protocolli di sicurezza, dall’altra per rinforzarle sul piano operativo. Spingiamo molto per poter visitare tutti i prigionieri catturati dalle due parti, e una volta che riusciamo a incontrarli, entrano in gioco anche i giuristi. Il tutto nel quadro del rispetto del diritto internazionale umanitario. La situazione è stata qualificata come “conflitto armato internazionale”, e quindi si applicano le Convenzioni di Ginevra, il che apre un dialogo giuridico, appunto, con le parti in causa».
Una cosa difficile da capire è come possiate davvero riuscire a sorvegliare sul rispetto del diritto umanitario in territori in guerra, e quindi inquinati dalla guerra.
«In realtà questa è una riflessione che tocca diversi degli aspetti che rendono il CICR - un’organizzazione che oggi ha 160 anni - molto particolare nel suo mandato; mandato conferitogli dagli Stati firmatari delle Convenzioni di Ginevra per lavorare in Stati in guerra e far rispettare il diritto internazionale umanitario. Il diritto bellico dice che, pur in una situazione di conflitto, bisogna far sì che l’integrità dei civili - così come le condizioni dei feriti - sia rispettata e difesa, e che i prigionieri siano trattati con dignità e che sia consentito loro informare le proprie famiglie della cattura. Per lavorare su questo diritto con le parti interessate dal conflitto, per far sì che il diritto sia rispettato, è importante per noi avere un dialogo protetto e confidenziale con le parti stesse. Lo facciamo attraverso le nostre squadre, con gli specialisti sul terreno, pronti a discutere delle varie situazioni e a migliorare, nel caso, l’approccio al diritto delle parti in causa. È chiaro che il dialogo è spesso complicato. Per questo è importante sottolineare il fatto che il CICR è un’organizzazione neutrale. È questo aspetto che ci permette di avere un dialogo con tutte le parti privo di interessi particolari, al di là dell’obiettivo di preservare le persone colpite dal conflitto».
Durante la guerra in Ucraina spesso è stato chiesto al CICR di denunciare l’aggressione della Russia ai danni dell’Ucraina. Non è mai stato fatto.
«Il CICR, quando si esprime, lo fa riferendosi alla situazione umanitaria, sulla necessità che venga rispettato il diritto internazionale umanitario. E il dialogo bilaterale con le parti in guerra è il nostro modo di funzionare. Per portarlo avanti, è necessario stabilire con esse un rapporto basato sulla fiducia reciproca. Solo così possiamo sperare di arrivare a ottenere un cambiamento. Il CICR, certo, potrebbe anche decidere di denunciare pubblicamente il fatto che non gli viene consentito di lavorare all’interno di un determinato conflitto, o se determinate negoziazioni vengono ostacolate. Ma è una modalità che usiamo raramente, proprio perché davanti a tutto mettiamo il bene della gente, e se noi stessi denunciamo la fine di una negoziazione poi non possiamo più fare nulla. Al contrario, il CICR vuole sempre arrivare fino in fondo a ogni situazione, a ogni conflitto, prima di abbandonare il dialogo e denunciare. Tornando a questo conflitto internazionale tra la Russia e l’Ucraina, le negoziazioni proseguono. In dicembre, per esempio, abbiamo potuto visitare diversi prigionieri di guerra, e le discussioni sono in corso per permetterci di incontrare più prigionieri possibili».


Quale situazione avete trovato?
«Il CICR visita le persone catturate da entrambe le parti del conflitto. Fin qui abbiamo potuto incontrare centinaia di prigionieri, ma sappiamo che tanti altri aspettano. Proprio per questo insistiamo con il dialogo, un dialogo che deve rimanere privilegiato e confidenziale con le autorità stesse. Di volta in volta discutiamo di ciò che abbiamo trovato e di ciò che può essere migliorato, e stabiliamo un contatto tra le famiglie e i prigionieri. I famosi messaggi della Croce Rossa, un atto importante per ristabilire una linea di vita tra chi è catturato e i propri parenti stretti».
Ecco, il fatto è che voi potete visitare ciò che vi viene consentito di visitare. C’è poi una realtà a cui non avete accesso.
«La forza del CICR è di essere sul posto, di avere contatti a diversi livelli gerarchici. E di non arrendersi mai. Dobbiamo sempre fare in modo di capire i contesti e di cercare, all’interno di essi, modi costruttivi per poter accedere a tutte le persone che vogliamo visitare. È vero che spesso troviamo situazioni sensibili, in ogni conflitto, quindi anche in quello in corso tra Russia e Ucraina, ma siamo coscienti di questa sensibilità. Per questo stabiliamo regole di visita con severità, per questo non ci arrendiamo mai e cerchiamo di andare più lontano possibile, prima di chiudere le porte».
Le parti in guerra non sono sempre tenere con il CICR. Lo stesso Volodymyr Zelensky, sul tema delle visite ai prigionieri, vi ha accusato di non fare abbastanza. E ha detto che il CICR si sta «autodistruggendo». Come convivere con queste pressioni?
«Da una parte si può capire la frustrazione legata al fatto che il CICR ancora non ha potuto visitare tutti i prigionieri, è una frustrazione condivisa, che riguarda anche le famiglie, con cui siamo in contatto quotidianamente. Ma dall’altra parte restiamo in costante dialogo con entrambi i lati della guerra, che sono consci della nostra volontà di non arrenderci. Contiamo però sul fatto che le parti assumano, ognuna, le proprie responsabilità nel conflitto rispetto al diritto internazionale umanitario, riconoscendo il lavoro del CICR e permettendogli di svolgerlo».


È stato necessario rendere operativa l’Agenzia centrale di ricerca del CICR, a Ginevra. Un’organizzazione di simili dimensioni non si vedeva dalla Seconda guerra mondiale. Ciò che cosa ci dice del conflitto in Ucraina?
«L’Agenzia centrale di ricerca raccoglie informazioni da entrambe le parti in conflitto, in modo da connetterle in merito a persone catturate, uccise o ferite. Ciò permette all’Agenzia di trasmetterle a sua volta alle famiglie. In questo ufficio abbiamo colleghi russi e colleghi ucraini, che lavorano assieme: e questo, da un certo punto di vista, è davvero simbolico. Dobbiamo considerare una cosa, ovvero che il diritto internazionale umanitario è stato stabilito quando le guerre si facevano tra due o più Stati. In questi ultimi decenni, tali conflitti non sono mancati, ma è vero che nella maggior parte dei casi si era confrontati con conflitti non internazionali, quindi più che altro - pur anche, a volte, con l’implicazione di Stati terzi - con guerre civili. Un conflitto armato internazionale di questa ampiezza non si vedeva da tanto tempo. Il che ha fatto scattare meccanismi specifici del diritto internazionale umanitario, compreso questo ufficio».
Lavora da anni per il CICR, ne avrà assorbito i valori. Ma a volte il fatto di dover essere neutrale, non le provoca frustrazione?
«Non credo di aver mai vissuto tale frustrazione. Da un lato perché, lavorando con queste modalità, si vedono le prospettive da tutte le parti, e poi perché è proprio questa neutralità a permetterci di lavorare, è uno strumento d’azione. Ci permette, in situazioni complesse, di fare qualcosa senza aspettare l’intervento di terzi, senza aspettare che una guerra finisca prima di poter essere sul posto. La frustrazione semmai è legata al fatto che a volte sembra di fare relativamente poco, a fronte di grandi bisogni, e sembra che tutto accada lentamente: è nella natura dei conflitti. Ecco, ma più forte della frustrazione è il fatto, comunque, di raggiungere gli obiettivi e di aiutare qualcuno».
Ha lavorato e vissuto in Ucraina. Che cos’è per lei - per Ariane Bauer, al di là del suo ruolo - questo Paese, e che effetto le fa vederlo, oggi, in simili condizioni?
«È un Paese che amo molto e che frequento, per lavoro, già dal 2015, quando siamo stati chiamati a operare sul fronte orientale. Fa male, quindi, vedere che la sofferenza, una volta concentrata su una parte del Paese, ora è generalizzata. È un’esperienza che, chi lavora per il CICR, vive abbastanza regolarmente. Il rischio dei conflitti è legato anche alla loro durata, che provoca enormi bisogni e sofferenze. Sono quindi addolorata, ma c’è anche una sorta di sollievo nel lavorare, da una parte come dall’altra della linea di fuoco, per il bene di tutte le persone colpite».
