Perché vogliamo sapere chi ha vinto fra Kamala Harris e Donald Trump?

Professoressa, nei dibattiti – come quello fra Kamala Harris e Donald Trump – si tende a cercare un vincitore. Sulla base di quali elementi?
«Dipende molto dalle percezioni e dalle aspettative. Si tratta di capire chi ha dato le risposte più efficaci a tutta una serie di questioni che interessano l’opinione pubblica americana, quasi sempre riferite alla politica interna. Da questo punto di vista, nessuno dei due è stato particolarmente esaustivo, sempre che lo si possa essere in un contesto così formalizzato. Martedì sera, però, da una parte c’era un candidato ben conosciuto, di cui si conosce perfettamente la retorica, dall’altra una candidata che rappresentava molte più incognite, nonostante sia l’attuale vicepresidente. Ci si chiedeva - anche a fronte del riferimento all’ultimo dibattito con Biden - se Harris sarebbe stata capace di fronteggiare proprio quella retorica, ma anche l’aggressività, di Trump, e quanto la sua capacità di stare sul palco e di obiettare a Trump permettesse anche di avere un giudizio sulla tenuta della sua leadership, sul suo agire da candidata alla presidenza. Da questo punto di vista, Harris ha vinto il confronto, dimostrandosi efficace e costringendo Trump sulla difensiva, al punto da spingerlo a mostrare il suo lato più paranoico e ad avanzare posizioni anche piuttosto discutibili».
In questi dibattiti in effetti non ci sono regole in merito alle fake news. Quanto l’America è in grado di cogliere eventuali menzogne, alcune delle quali palesi, martedì sera?
«La base elettorale di Trump - lo zoccolo duro - difficilmente verrà scalfita dalla controfattualità esposta sia dalla candidata dem sia, in questo caso, dai moderatori. C’è un atteggiamento fideistico nei confronti di Trump da parte della base MAGA. I dibattiti televisivi hanno una loro importanza, un impatto che raggiunge soprattutto l’elettorato mediamente più colto, e non la cosiddetta working class, non chi tende a formare le proprie opinioni via social o via internet. L’impatto sulle intenzioni di voto lo si vedrà nei prossimi giorni, quando i sondaggi ci mostreranno eventuali oscillazioni, che a quel punto potrebbero essere dovute all’elettorato indeciso e indipendente, il quale ha potuto farsi un’opinione sulla candidabilità o meno di un contendente attraverso la tv».
Qual è, storicamente, il peso di questi dibattiti televisivi nella corsa alle presidenziali USA?
«I dibattiti hanno una storia relativamente recente. Il riferimento è al 26 settembre 1960, al dibattito Kennedy contro Nixon, il quale ha segnato tutta una stagione di studi sul tema, dimostrando quanto fosse importante il mezzo televisivo: chi aveva visto il dibattito in tv, aveva dato per vincente Kennedy, chi invece lo aveva seguito in radio, Nixon. Quel modello è poi diventato un riferimento per il futuro».
Non è un caso che, proprio in quegli anni, le primarie si siano imposte come strumento decisivo nella selezione dei candidati.
«No, il mezzo ha infatti permesso di valorizzare il carattere e la postura dei candidati, la loro immagine, oltre che il tono della loro voce. Da questo punto di vista, i dibattiti hanno aperto un’era di costruzione dell’immagine dei candidati. Tornando alla sua precedente domanda, che poi questi dibattiti siano effettivamente risolutivi, la questione è più controversa, anche perché dobbiamo calcolare che in alcuni Stati già si sta votando. Il tutto è maggiormente legato alla capacità di porsi in uno spazio pubblico e mediatico, un riflesso della propria capacità di leadership. E nella politica odierna, questioni legate alla personalità dei candidati sono elementi importanti, anche perché l’agenda politica rimane, non casualmente, ridotta in termini molto più generici. D’altronde, i processi decisionali in America hanno dinamiche molto complicate. Il presidente americano non è il governo americano».