Sessant'anni fa il mondo sfiorò la guerra nucleare

Mai, dai decenni a questa parte, il mondo è arrivato vicino come lo è oggi a una guerra nucleare. Lo pensano gli analisti, sì, ma anche la politica. Una decina di giorni fa, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha affermato, nel corso di un evento elettorale tenutosi a New York, che «Putin non scherza quando parla di un uso potenziale dell’arma atomica». Secondo il leader americano, il rischio di una apocalisse non aveva mai raggiunto simili livelli negli ultimi decenni. Benché media e Governo si siano affrettati a smorzare i toni, riferendo come Biden non abbia basato il suo discorso su nuove fonti d'intelligence, la preoccupazione rimane. E, più recentemente, al vertice euroasiatico di Astana, Kazakistan, il presidente russo Vladimir Putin ha voluto evocare nuovamente l'opzione nucleare, questa volta guardando alla NATO: «L'invio di truppe dell'Alleanza in Ucraina per un confronto diretto con l'esercito russo sarebbe molto pericoloso e potrebbe causare una catastrofe globale».
Toni, questi, che ricordano quelli utilizzati esattamente 60 anni fa, quando il mondo assistette ai 13 giorni della crisi dei missili di Cuba.

Le premesse
Che cosa è successo, in dettaglio, il 16 ottobre del 1962? All'epoca, a guidare i blocchi contrapposti di Stati Uniti e Unione Sovietica, c'erano, rispettivamente, John F. Kennedy e Nikita Krusciov. Per capire meglio l'escalation che ha portato, per la prima volta, il mondo sull'orlo di una devastante guerra nucleare, bisogna però fare un passo indietro. Il 29 agosto del 1949, a soli quattro anni dal bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, l'URSS testò la sua prima bomba a fissione nucleare. L'esame fu condotto in Kazakistan e si dimostrò, per il blocco occidentale, un inatteso successo. In poco tempo, Mosca era riuscita a imitare la tecnologia statunitense. Le potenzialità dell'atomo, si sarebbe scoperto più tardi, erano state analizzate in Russia sin dagli anni '30, ma il programma per la creazione di un'arma aveva subito ritardi a causa della guerra. Ricerca e spionaggio, tuttavia, riportarono rapidamente l'URSS sul piano degli Stati Uniti, inasprendo le tensioni e aumentando il rischio di un'escalation della Guerra fredda.
Il 1959 fu, allora, l'anno cruciale. Mentre a Cuba si compiva la rivoluzione di Fidel Castro, sostenuta dall'Unione Sovietica e osteggiata dagli Stati Uniti, Washington pensava a dispiegare sul Vecchio continente i propri missili balistici. Su decisione dell'allora presidente Dwight D. Eisenhower, ex generale e mente dietro allo sbarco in Normandia, il governo americano firmò nel marzo del 1959 una serie di accordi con Italia e Turchia al fine di poter piazzare, sul loro territorio, una serie di postazioni missilistiche.
Negli anni seguenti, con Kennedy presidente, il programma venne portato avanti e decine e decine di PGM-19 Jupiter, missili con portata tra i mille e i 5.500 chilometri, vennero inviati verso l'Europa. Dopo aver assistito, dunque, al fallimento dell'invasione statunitense dell'alleato cubano (aprile 1961, Baia dei Porci), Mosca puntò proprio su L'Avana per portare la minaccia nucleare ai confini degli Stati Uniti. Nel 1962, Krusciov prese accordo con Fidel Castro per il dispiegamento, a Cuba, di una serie di strutture missilistiche dalle potenzialità simili a quelle statunitensi, la costruzione delle quali iniziò, in gran segreto, nell'estate dello stesso anno.

Lo spavento
Eccoci, dunque, alla fatidica data. All'alba del 16 ottobre del 1962, al presidente Kennedy venne notificata la conferma dell'identificazione, da parte di un aereo spia statunitense, di strutture per missili balistici su territorio cubano. Una notizia che gettò le basi per quella che divenne famosa come la "crisi dei missili di Cuba", la "crisi d'ottobre" o, in inglese, "the Missile scare", lo spavento dei missili. Tredici giorni nel corso dei quali, per l'appunto, la paura per le sorti del mondo regnò sovrana.
Confermata la presenza di missili sovietici a corto e medio raggio sull'isola di Cuba, Kennedy formò rapidamente un gruppo, composto dai nove membri del Consiglio di sicurezza nazionale e da altri consiglieri, per affrontare la crisi. Il team, chiamato EXCOMM (Executive Committee of the National Security Council), stabilì che le vie attuabili erano sostanzialmente sei: dal non fare nulla all'invadere Cuba, deponendo Castro. Fra le opzioni considerate vi fu anche quella della mediazione ONU, l'approccio segreto (convincere Castro ad abbandonare l'alleanza sovietica), il bombardamento a tappeto dei siti missilistici, la creazione di un blocco navale che impedisse l'arrivo di qualsiasi testata a Cuba. Per cinque giorni tutte le idee vennero considerate attentamente e i rappresentanti dei diversi rami delle forze armate statunitensi, riuniti nel Joint Chiefs of Staff, erano unanimi nel consigliare l'attacco totale e l'invasione di Cuba. Ma Kennedy era contrario. Il 21 ottobre, sul tavolo dell'EXCOMM rimanevano due opzioni: il bombardamento mirato dei siti missilistici o il blocco navale. Fu scelta quest'ultima via. Il giorno seguente, il 22 ottobre, Kennedy parlò alla nazione e al mondo di quanto stesse succedendo a Cuba, annunciando contemporaneamente il blocco navale di Cuba per impedire l'arrivo di ulteriore materiale militare sovietico. Il termine utilizzato per definire l'operazione, «quarantena» invece di «blocco», fu deliberata. Quest'ultimo termine, secondo le consuetudini del diritto nazionale, poteva infatti essere considerato come un atto di guerra.
La mossa fu osteggiata dal Congresso statunitense, che chiedeva una risposta più forte. Si temeva, inoltre, che sull'isola fossero presenti già abbastanza testate e che reagire con un "semplice" blocco avrebbe permesso ai sovietici di armare i missili, rendendo più complicato un eventuale, successivo, bombardamento dei siti. A Cuba, si scoprì più tardi, l'URSS aveva effettivamente già posizionato oltre 150 testate, un centinaio delle quali tattiche.
Nei giorni seguenti, la crisi si intensificò. La sera del 24 ottobre, Krusciov comunicò che gli «atti di pirateria» degli Stati Uniti avrebbero portato alla guerra. Ma nelle comunicazioni successive, per quanto accesi, i toni del leader sovietico si fecero via via più accomodanti. A contribuire, furono la ferma posizione di Washington di fronte a Krusciov e l'informazione, raccolta e comunicata a Mosca da spie sovietiche, che Kennedy era pronto a procedere con l'invasione e il bombardamento di Cuba in caso di ulteriori escalation.
Fu il 27 ottobre che, dopo una serie di negoziazioni, l'URSS acconsentì a rimuovere i missili da Cuba in cambio di una stessa operazione, da parte statunitense, in Italia e Turchia. Nei due giorni seguenti, si sfiorò nuovamente la catastrofe quando un sottomarino sovietico di pattuglia, armato con una testata nucleare e tagliato fuori da giorni dalle comunicazioni con Mosca (e per questo all'oscuro del raggiunto accordo), scambiò le segnalazioni di una nave statunitense con un attacco. Fu solo grazie alla decisione del secondo in comando, Vasily Arkhipov, di opporsi al lancio, che l'attacco nucleare non avvenne.
La crisi terminò ufficialmente il 29 ottobre, ma il blocco navale continuò fino al 20 novembre.

Tredici giorni
All'evento, Robert Francis Kennedy (avvocato e fratello del presidente) dedicò un resoconto intitolato Thirteen Days: A Memoir of the Cuban Missile Crisis. Nel libro, pubblicato un anno dopo il suo assassinio, descrisse le riunioni dell'EXCOMM presiedute da John F. Kennedy con l'obiettivo di gestire la crisi cubana. Il resoconto è stato utilizzato come base per diversi documentari e film sulla crisi di ottobre. Tra questi, il più famoso è probabilmente l'omonimo Tredici giorni (Thirteen Days): una pellicola che ha raccolto buone recensioni dai critici, meno dalla politica.

Fra le osservazioni negative, il fatto in particolare che al personaggio di Kevin Costner, Kenneth O'Donnell, siano stati assegnati un po' troppi meriti. Con un po' di licenza creativa, al consulente politico e segretario di John F. Kennedy la regia aveva dato un ruolo di primo piano. Robert McNamara, che all'epoca della crisi era a capo del dipartimento della Difesa, ha evidenziato: «Non è stato Kenny O'Donnell a unirci nel momento di difficoltà: è stato Ted Sorensen (avvocato, consigliere e scrittore dei discorsi di Kennedy, ndr)». Tutto sommato, però, anche chi ha vissuto gli eventi in prima persona ha riconosciuto: «È una rappresentazione assolutamente affascinante, costruttiva e responsabile di una crisi molto, molto seria. Non solo nella storia di questa nazione, ma per quella del mondo intero».