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Sì, Google e Facebook devono pagare per le notizie

La Nuova Zelanda si allinea all'Australia e al Canada e corre in difesa degli editori locali: i colossi tech che «usano» il lavoro altrui per generare traffico e pubblicità dovrebbero riconoscere una fetta all'industria giornalistica
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Marcello Pelizzari
05.12.2022 14:00

Dopo l’Australia, tocca alla Nuova Zelanda. Di che cosa stiamo parlando? Delle notizie che finiscono su motori di ricerca come Google o vengono condivise su Facebook e, di riflesso, della compensazione prevista per chi, ovvero gli editori, quelle notizie le confezionano. Wellington, a tal proposito, ha dichiarato di voler introdurre una legge sulla falsariga di quella australiana per costringere Big Tech – Alphabet, Meta e via discorrendo – a pagare i media neozelandesi per i contenuti che, appunto, finiscono fra i risultati di ricerca o sui feed dei social.

A parlarne è stato il ministro della Radiodiffusione e dei Media, Willie Jackson, secondo cui la legislazione verrà modellata su quanto già hanno fatto Australia e, ancora, Canada. Jackson, in particolare, auspica che una mossa del genere possa stimolare le piattaforme come Facebook a firmare accordi con i media nazionali.

«I media della Nuova Zelanda, in particolare i piccoli giornali regionali e comunitari, stanno lottando per rimanere finanziariamente sostenibili» ha detto Jackson. «Il tutto mentre sempre più pubblicità si sposta online. È fondamentale che chi beneficia di questi contenuti, beh, paghi».

La nuova legislazione verrà sottoposta all’esame in Parlamento, con la maggioranza laburista pronta a ribadire il suo sì.

Il modello australiano

L’Australia, nel 2021, fra minacce di Google e Meta, allora solo Facebook, aveva introdotto una legge che conferiva – e conferisce – al governo il potere di ancorare Big Tech ai propri doveri nei confronti degli editori locali. Un rapporto della scorsa settimana firmato dal governo di Canberra ha rilevato che, dati alla mano, la legge ha funzionato. Eccome se ha funzionato. Tant’è che l’Australia, ora, conta di estenderla ad altre piattaforme: TikTok, ma anche Twitter.

Il Tesoro australiano, tornando al rapporto, ha affermato che i media neozelandesi hanno firmato oltre 30 accordi di compensazione per le notizie condivise su Google e Facebook. Mica male.

In base a questi accordi, si legge, alcune testate giornalistiche hanno potuto «assumere giornalisti aggiuntivi ed effettuare altri investimenti». Hanno potuto, tagliando corto, continuare a fare ciò che sanno fare: offrire informazione di qualità.

Il Tesoro, dicevamo, ha pure raccomandato al governo di chiedere all’Australian Competition and Consumer Commission, il principale regolatore della concorrenza, di considerare fra le altre cose l’estensione della legge ad altre piattaforme.

La legge era stata introdotta per cercare di frenare l’emorragia pubblicitaria: con l’avvento di Big Tech, infatti, le organizzazioni giornalistiche si sono viste privare di una larghissima fetta di introiti pubblicitari digitali. I piani del governo australiano, a suo tempo, sono stati a lungo contrastati tanto da Google quanto da Facebook, fra minacce di sospensione del servizio (immaginatevi in una qualsiasi città australiana e di dover cercare qualcosa online: ecco…). Finché il governo non ha accettato di rivedere il testo della legge, i due giganti del web avevano temporaneamente rimosso tutte le notizie dalle rispettive piattaforme.

E l'Europa?

In un mondo ideale, certo, i vari attori dovrebbero accordarsi senza la necessità di un intervento normativo. La presenza di una rete di sicurezza, chiamiamola così, capace di sostenere l’industria dei media in assenza di un accordo commerciale, è comunque vista e interpretata come un modello ragionevole, hanno indicato gli esperti. Anche Google, dopo le minacce e le strategie di disturbo, sembra essersi messo il cuore in pace: Lucinda Longcroft, responsabile per gli affari governativi in seno a Google Australia, ha affermato con soddisfazione che Alphabet, la società madre del motore di ricerca, ha dato il suo contributo all’industria dell’informazione australiana firmando accordi che si riflettono, in maniera positiva, su 200 testate in tutto il Paese. La Nuova Zelanda, insomma, non dovrebbe faticare a trovare una soluzione.

D’accordo, ma l’Europa? Google, lo scorso maggio, aveva annunciato in pompa magna che avrebbe compensato oltre 300 media europei per avere le loro notizie sul proprio motore di ricerca. Il colosso statunitense, andando nel dettaglio, aveva firmato accordi con editori in Germania, Francia, Ungheria, Austria, Paesi Bassi e Irlanda, il tutto mentre le discussioni con altri media erano già in corso.

Tre anni fa, l’UE aveva rivisto le norme sul diritto d’autore che richiedono a giganti come Google di pagare musicisti, artisti, autori, editori e giornalisti per l’utilizzo del loro lavoro. Poco o nulla, tuttavia, si sa circa le cifre legate a queste compensazioni.

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