Si infiamma il Medio Oriente, Israele richiama i riservisti

Resta alta la tensione in Medio Oriente. Ieri a Tel Aviv un veicolo è piombato sulla folla sul lungomare. L’attacco ha provocato almeno una vittima, un turista italiano di circa 30 anni, e sette feriti, alcuni in modo grave. L’autore è stato ucciso dalle forze di sicurezza israeliane.
Dopo il lancio di missili dal Libano di giovedì e la durissima risposta aerea di Tel Aviv nella notte di venerdì, Israele ieri ha richiamato i riservisti dell’aviazione e rafforzato le sue truppe nei Territori in un chiaro messaggio ad Hamas, Hezbollah e Iran. Sempre ieri, alcuni razzi sono stati lanciati dal Libano verso il Nord e il Sud di Israele. Senza tuttavia provocare danni. Il sistema antimissilistico dello Stato ebraico ha infatti neutralizzato l’incursione. La maggior parte delle ogive è stata intercettata o è esplosa in aree aperte e solo un razzo ha colpito un edificio. Insomma, entrambe le parti hanno evitato di causare il tipo di danno che avrebbe trasformato lo scontro in una guerra totale.
Il Governo libanese, che - va detto - ha un’influenza limitata sulla parte meridionale del Paese (la stessa dominata da Hezbollah), ha condannato il lancio di missili provenienti dal suo territorio, in un apparente tentativo di frenare eventuali rappresaglie israeliane. Le stesse milizie di Gaza hanno evitato di lanciare razzi in profondità nel territorio israeliano, segno evidente che anch’esse tutto cercavano tranne che esacerbare gli animi. Da parte sua, Israele ha scelto di non prendere di mira aree urbane densamente popolate, anche se una delle rappresaglie ha causato danni a un ospedale, secondo quanto riferito dal Ministero della sanità di Gaza.
Ieri mattina il tenente colonnello Richard Hecht, portavoce delle forze armate israeliane, ha confermato sia il fitto scambio di «messaggi» sui canali diplomatici, proprio nel tentativo di disinnescare la situazione, sia il ruolo di mediazione messo in atto dall’Egitto. «Al silenzio si risponderà con il silenzio - ha detto ai giornalisti in un briefing -, nessuno vuole un’escalation in questo momento». Subito dopo, ripreso dalla Reuters, un funzionario di un gruppo militante palestinese ha confermato la volontà della propria parte di «mantenere la calma se Israele dovesse fare lo stesso». Alla fine, dopo alcune ore di bonaccia lungo i confini con Gaza e Libano, l’esercito dello Stato ebraico ha annunciato che i residenti in quelle zone non avevano più bisogno di rimanere vicino ai rifugi antiaerei.
Gli antefatti
Nell’ultima settimana la situazione era sembrata volgere al peggio. Il culmine della tensione era stato raggiunto nelle prime ore di mercoledì quando la polizia israeliana aveva fatto irruzione nel complesso della moschea di al-Aqsa (lo stesso che gli ebrei chiamano il «Monte del Tempio») picchiando e arrestando decine di fedeli palestinesi che si erano barricati all’interno di una sala di preghiera. Gli agenti erano entrati in azione prima che avesse inizio una prevista visita al complesso da parte di pellegrini ebrei, giunti a Gerusalemme in coincidenza con l’avvio della Pasqua ebraica che quest’anno si sovrappone al mese di digiuno musulmano del Ramadan. Giovedì, apparentemente in risposta al raid della polizia, le milizie palestinesi del Sud del Libano avevano lanciato 36 razzi su Israele, causando danni alle proprietà ma nessuna vittima.
Secondo fonti dell’esercito israeliano, la responsabilità dell’attacco era da attribuire a gruppi di Hamas e della Jihad islamica palestinese basati a Gaza ma presenti anche in Libano, dove sono appoggiati da Hezbollah, la milizia sostenuta dall’Iran che domina il Sud del Paese dei cedri.
Entrambi questi gruppi avevano condannato, poche ore prima, la brutale incursione della polizia ad al-Aqsa.
La risposta del Governo di Benjamin Netanyahu non si era fatta attendere. Gli aerei da guerra israeliani erano decollati prima dell’una di notte di venerdì attaccando alcuni siti palestinesi a Gaza, la maggior parte dei quali collegati all’ala militare di Hamas. Poco prima dell’alba di venerdì, poi, l’aviazione israeliana aveva colpito tre siti controllati da Hamas nel Sud del Libano.
Il problema siriano
Come detto, però, quella che subito era apparsa a molti analisti come la più grave escalation lungo il confine tra Israele e Libano dal 2006 - anno in cui l’esercito dello Stato ebraico combattè per un mese contro Hezbollah - si è raffreddata quasi subito. Perché è accaduto? Perché Netanyahu, che pure nella notte tra giovedì e venerdì aveva annunciato di voler fare pagare «un prezzo significativo ai nemici di Israele, stasera e in futuro», ha tirato il freno della guerra?
Secondo lo storico del sionismo e dell’ebraismo David Bidussa, già direttore editoriale della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano, «Netanyahu dà di sé l’mmagine di un leader che vuole la guerra e che è sempre pronto a farla, ma in realtà nell’ultimo decennio si è mosso di continuo in modo tattico, sempre evitando un conflitto aperto».
Questo è successo, spiega ancora Bidussa, per più motivi. «Intanto, perché Israele è un Paese che da 12 anni, da quando cioè è scoppiata la guerra civile nella Siria di Bashar al-Assad, deve tenere a bada un confine inquieto, quello delle alture del Golan che guardano verso Damasco. E poi, perché la crisi interna allo Stato ebraico è molto più complessa di quanto si possa immaginare».
Con il lungo processo di pace a guida internazionale moribondo, le speranze dei palestinesi di creare uno stato indipendente in Cisgiordania e Gaza, con Gerusalemme Est come capitale, sono infatti praticamente svanite. «E Benjamin Netanyahu non ha alcun interesse a rimettere in discussione le questioni accumulate e irrisolte nei quasi 60 anni che ci separano dalla fine della guerra dei Sei giorni», conclude Bidussa.
«Ma il contesto è profondamente cambiato»
Claudio Vercelli insegna all’Istituto universitario per mediatori linguistici di Milano (Limes-SSL); storico contemporaneista, nel 2020 ha pubblicato con Laterza la nuova edizione della sua Storia del conflitto israelo-palestinese, in cui è ricostruita in dettaglio una vicenda che ha i suoi albori all’inizio del XIX secolo.
«Oggi - dice Vercelli al CdT - siamo in un contesto di profondo mutamento. Da una parte c’è un Paese, Israele, più fragile e debole di prima, a causa soprattutto delle fratture interne politiche e sociali il cui impatto è maggiore di quanto si possa credere. Il contrasto tra la popolazione e il Governo è aperto, come dimostrano le manifestazioni di piazza. Dall’altra parte, al culmine di una crisi di lunghissima data, c’è un frazionamento della comunità nazionale palestinese. Gaza, la Cisgiordania o il Libano di Hezbollah sono realtà molto diverse tra loro. Così, ciò che pare immobile o immutato, ovvero il conflitto israelo-palestinese, tale non è».
Nell’area mediorientale, dice ancora Vercelli, «non è cambiato soltanto il ruolo degli Stati Uniti, ma anche quello di altri importati attori: basti pensare all’accordo tra Iran e Arabia Saudita, favorito dalla mediazione cinese. Forse fino a non molto tempo fa si poteva ipotizzare di trarre beneficio dallo statu quo, adesso non più. Per questo motivo sarebbe stato importante lavorare di più nella direzione della pace, ma il progetto si è purtroppo inabissato».
A lungo termine, proprio la fragilità politico-sociale di Israele, plasticamente testimoniata dalla frammentazione della Knesset, potrebbe essere un fattore decisivo nello sviluppo della crisi. «Benjamin Netanyahu è un principe senza scettro - conclude Claudio Vercelli - rimane figura imprescindibile nella politica del suo Paese ma con un seguito molto minore rispetto al passato. Dovrà necessariamente mediare con gli alleati per non rischiare di aprire un ulteriore conflitto politico interno dagli esiti imprevedibili».