Stesso copione, nuovo accordo: l'infinita negoziazione USA-Iran

Washington è tornata a negoziare con Teheran. Un rituale tanto familiare quanto frustrante: una sorta di déjà vu diplomatico che attraversa amministrazioni, ideologie e cicli geopolitici. A quasi dieci anni dalla ratifica del Piano d’Azione Congiunto Globale (JCPOA), ma soprattutto sette anni dopo l’uscita unilaterale della prima amministrazione Trump e il conseguente collasso dell’accordo, gli Stati Uniti, sotto il secondo mandato di Trump, stanno cercando di definire un nuovo accordo nucleare con l’Iran.
Questa volta, però, sembra diverso. Israele ha aperto la strada a una nuova forma di diplomazia regionale: «prima bombardare, poi negoziare», ovvero, azioni preventive per dimostrare forza e impegnarsi a un possibile trattato a posteriori.
A differenza del JCPOA, fondato su concessioni reciproche e un cauto ottimismo, il quadro emergente nel 2025 appare più duro, ampio e ambizioso o, come direbbero gli attuali responsabili statunitensi, un trattato «grande e bellissimo». Ma funzionerà davvero? Nella pratica, rischia di trasformarsi nell’ennesimo esercizio di aspettative massimaliste e risultati minimalisti.
Chi ha vinto con il JCPOA?
Vale la pena ricordare chi ha tratto i maggiori vantaggi economici dal JCPOA nella sua versione originale, e forse perché Trump se ne sia sfilato nel 2018. L’Iran fu il vero beneficiario: accesso a oltre 50 miliardi di dollari in asset scongelati, raddoppio delle esportazioni di petrolio e una breve ripresa degli scambi commerciali con Europa e Asia.
Le aziende europee, in particolare francesi, tedesche e italiane, conclusero accordi ad alto valore nei settori dell’aviazione, dell’energia e delle infrastrutture, molti dei quali furono poi annullati con il ritorno delle sanzioni USA. Anche la Cina ne approfittò, rafforzando in silenzio i legami energetici e infrastrutturali. Gli Stati Uniti, invece, non trassero praticamente alcun vantaggio commerciale, a causa dei propri divieti sul commercio con Teheran. Anche il maxi contratto Boeing per aerei commerciali fu annullato. In breve, Washington sostenne il costo politico e diplomatico dell’accordo, mentre i benefici economici andarono ad altri. Questa volta, però, l’obiettivo dell’amministrazione americana è ottenere un ritorno tangibile, anche economico, nonostante un forte deficit di fiducia con la controparte iraniana.
Una lunga lista di richieste
Il JCPOA imponeva limiti rigidi ma a scadenza programmata al programma nucleare iraniano, con livelli di arricchimento regolati e ampio monitoraggio da parte dell’AIEA. Alcuni vincoli, come l’embargo sulle armi, durarono cinque anni; altri, fino a 15. Le misure di trasparenza dovevano essere permanenti. Questo sistema a strati costruì per un periodo un certo grado di fiducia tra le parti.
Il nuovo approccio USA, invece, abbandona quel modello: si parla di arricchimento zero, smantellamento di infrastrutture chiave e controlli permanenti. Come ha dichiarato un ex negoziatore, sarebbe un «JCPOA meno il programma nucleare iraniano».
Accetterà Teheran? La recente dichiarazione della Guida Suprema Ali Khamenei lascia poche speranze. Nel frattempo, gli Stati Uniti puntano anche a un ritorno economico diretto: accesso a investimenti strategici e infrastrutture critiche, per contrastare l’influenza europea e cinese, una pretesa che sarà vista con sospetto dalla Repubblica Islamica.
Non solo nucleare
Ciò che rende queste negoziazioni più ambiziose – forse fin troppo – è l’ampliamento dell’agenda: missili balistici, gruppi proxy e de-escalation regionale sono inclusi nel pacchetto. L’obiettivo non è solo la non proliferazione, ma un vero cambiamento comportamentale dell’Iran, evitando però – per ora – una transizione di regime, come richiesto da alcuni alleati conservatori israeliani.
Ma questo aggiunge rischi diplomatici enormi. Un trattato nucleare è già difficile da raggiungere. Uno che punta anche a smantellare la postura strategica iraniana in Medio Oriente è quasi impossibile – e minaccioso per molte monarchie del Golfo.
Gli USA chiedono all’Iran di barattare non solo centrifughe con la rimozione delle sanzioni, ma anche la fine dell’ambizione strategica da Baghdad a Beirut. Il tutto, evitando accuratamente il tema Gaza, che alimenta ostilità anti-israeliana nella regione. Qualsiasi cambiamento richiederebbe un mutamento ideologico profondo da parte del regime iraniano, forse possibile solo con l’ascesa di nuove generazioni o con il ritorno della diaspora.
Fiducia al minimo
A complicare ulteriormente lo scenario vi è la crescente dissonanza tra la retorica pubblica statunitense e le dinamiche reali dei negoziati. Lo scorso 30 giugno, il presidente Trump ha dichiarato di «non offrire nulla» all’Iran, rigettando qualsiasi concessione e criticando apertamente la linea diplomatica dell’era Obama, bollata come «stupida e ingenua».
Tuttavia, fonti vicine alla Casa Bianca e diplomatici europei confermano che, dietro le quinte, sono in corso scambi esplorativi che includerebbero un pacchetto d’incentivi economici stimato tra i 20 e i 30 miliardi di dollari. Questo comprenderebbe lo sblocco parziale di fondi iraniani congelati, programmi umanitari e investimenti civili sponsorizzati da fondi sovrani del Golfo, in cambio di un congelamento delle attività di arricchimento più sensibili. Il portavoce della presidenza ha però smentito ufficialmente qualsiasi piano di accordo civile nucleare da 30 miliardi di dollari, segno di una linea comunicativa contraddittoria e probabilmente strategica.
L’arricchimento non si ferma
Sul fronte iraniano, la posizione rimane immutata. Il 29 giugno, l’ambasciatore dell’Iran all’ONU, Amir Saeid Iravani, ha ribadito che «l’arricchimento dell’uranio è un diritto inalienabile», escludendo qualsiasi interruzione, pur lasciando uno spiraglio alla possibilità di delocalizzare all’estero le scorte più sensibili, in un quadro negoziale multilaterale. Nonostante la tensione apparente, l’inviato speciale USA, Steve Witkoff, ha definito i recenti colloqui con Teheran «promettenti». Alcuni scambi diretti, ma anche attraverso intermediari regionali si pensi al Qatar, starebbero delineando un accordo «incrementale e realistico» per ridurre il rischio di escalation e dare tempo alla diplomazia.
Sanzioni ricalibrate
Niente più sblocco di miliardi in asset. Il nuovo accordo prevede incentivi economici a rate, alcuni umanitari, molti legati a investimenti a guida americana eventualmente attraverso i fondi sovrani del Golfo. Il meccanismo di «snapback» previsto dalla Risoluzione ONU 2231 resterà, consentendo agli USA o ad altri membri permanenti del Consiglio di Sicurezza di ripristinare le sanzioni in caso di violazioni iraniane. Una rete di sicurezza, ma anche un segnale della sfiducia persistente. Tuttavia, per Teheran potrebbe sembrare solo una promessa differita, con benefici subordinati a conformità totali e controlli. E dopo il rapido fallimento del JCPOA, la fiducia è scarsa, anche con gli altri firmatari. Dichiarazioni ambigue da parte di Germania e Regno Unito, oltre al silenzio dell’ONU su attacchi contro infrastrutture nucleari iraniane, hanno ulteriormente incrinato i rapporti.
Sfiducia, agenzie indebolite
Il voto del Parlamento iraniano per sospendere la cooperazione con l’AIEA, invocando di fatto l’articolo X del TNP, è un segnale forte. Teheran percepisce l’Agenzia come uno strumento politico occidentale, non più neutrale. Il rischio? Se l’Iran dovesse uscire dal TNP, il sistema globale di non proliferazione perderebbe un pilastro — mentre potenze come Israele, India e Pakistan già non ne fanno parte.
Un trattato «blindato»? Forse
L’amministrazione USA vorrebbe che il nuovo accordo diventasse un trattato vero e proprio, soggetto alla Sezione 123 dell’Atomic Energy Act, per renderlo meno vulnerabile a futuri cambi di presidenza. Ma ottenere l’approvazione del Senato, oggi, è tutt’altro che scontato. E anche con una maggioranza, un futuro Presidente potrebbe aggirarlo politicamente.
Diplomazia sotto le bombe
A differenza del 2015, oggi la diplomazia si muove sotto la minaccia di sabotaggi, cyberattacchi e conflitti per procura. Israele ha intensificato le operazioni segrete, mentre gli USA rafforzano la deterrenza nel Golfo. L’Iran, dal canto suo, continua l’arricchimento oltre i limiti del JCPOA. Il nuovo accordo non sembra un “grande compromesso”, ma piuttosto un modo per congelare l’escalation. Un patto per guadagnare tempo, più che per risolvere.
L’illusione di una soluzione
L’ennesimo capitolo della diplomazia USA–Iran rischia di essere più una tregua temporanea che un vero accordo trasformativo. Ma forse è questo il vero obiettivo: evitare il peggio, senza illudersi di riscrivere la storia. Il vero ostacolo non è solo il programma nucleare iraniano. È la tendenza americana a trattare la diplomazia come una giostra ciclica, dettata dalla politica interna, da alleanze regionali e dal sogno che ogni nuovo accordo cancelli tutti gli errori passati. Un’illusione che torna puntuale, ogni volta che si riaccendono i riflettori su Teheran.
* Andrea Molle è professore di scienze politiche e relazioni internazionali presso la Chapman University (California)
** Luca Tenzi è esperto di sicurezza internazionale con esperienze presso le agenzie ONU e missioni NATO