Tra critiche e boicottaggio: i Mondiali come un campo minato per le grandi marche

I grandi brand a caccia della vetrina più luminosa per mettere in mostra i propri prodotti quest’anno non sembrano avere vita facile: i Mondiali in Qatar per loro potrebbero trasformarsi nel peggiore dei campi minati. Le dure critiche a cui abbiamo assistito in questi giorni, in alcuni casi si sono infatti tradotte in vere e proprie azioni di boicottaggio, che non significano solamente spegnare la tv e snobbare le partite. Le grandi aziende rischiano danni alla reputazione e, banalmente, minori vendite sotto Natale, tant’è che molte di loro hanno preferito mantenere un basso profilo. Specialmente quelle che, come Credit Suisse o Coca-Cola, intendono dare di sé un'immagine progressista su temi come la protezione del clima, i diritti della comunità LGBTQ+ o quelli delle donne. Ma cosa rischiano i brand che hanno detto sì a Qatar2022? E, in caso si scatenasse uno tsunami di dissenso, come potrebbero correggere il tiro? Ne parliamo con Luca Massimiliano Visconti, decano della Facoltà di comunicazione, cultura e società all’Università della Svizzera italiana nonché professore di marketing presso l’Istituto di Marketing e Comunicazione Aziendale, sempre presso l’USI.
Professor Visconti, proviamo a inquadrare le grandi marche nel contesto di Qatar2022…
«Innanzitutto, occorre fare delle distinzioni: non tutte le marche coinvolte nella grande sponsorizzazione dei Mondiali sono identiche dal punto di vista della strategia di branding. Alcune marche non hanno infatti mai assunto uno spiccato ruolo ideologico-politico nella propria strategia. Penso, ad esempio, a Puma e Adidas che, non avendo giocato il ruolo del guru o dell’attivista, si muovono in un contesto fondamentalmente di business. Queste marche sono quindi presenti ai Mondiali in quanto evento che attira attenzione ed è suscettibile di avere un forte impatto sulle vendite Avendo in genere tenuto un discorso più legato al prodotto, e quindi al business, sorprende meno trovarle a Qatar2022. Viceversa, ci sono marche che, ormai da decenni, hanno assunto un ruolo che va oltre alla vendita di un prodotto. Potremmo parlare di marche ideologiche: la loro ragion d’essere, almeno nella loro comunicazione, è legata a una sorta di cambiamento socioculturale e politico. Nike sicuramente fa parte di questa categoria, ma anche Budweiser. Quest’ultima per molti anni, negli Stati Uniti, ha supportato la causa della comunità LGBTQ+. Si è fatta promotrice di un cambiamento sociale, normativo e culturale. Ora, vedere marche di questa natura in Qatar, cioè in un contesto che è tipicamente ortogonale ai valori che le aziende citate hanno sin qui predicato e praticato, attraverso la propria strategia di branding, si presta probabilmente a maggiori polemiche e possibili critiche».
Chi sta boicottando i Mondiali potrebbe prendere le distanze da questi brand. Nel caso succedesse, le varie Adidas, Puma e Nike come potrebbero rispondere?
«Come detto, nel caso di marche come Adidas o Puma che, banalmente, giocano il ruolo dello sponsor, credo che il rischio di critiche sia meno elevato. È probabile che la loro linea argomentativa sottolinei che, con la loro presenza a Qatar2022, si limitano a celebrare il valore dello sport, il piacere che vi si accompagna, la fiducia in una competizione "sana", eccetera. Per marche come Nike e Budweiser, la questione diventa più critica. Le recenti comunicazioni tramite social media di Budweiser spingono sull'idea che la presenza della marca ai Mondiali possa amplificare il divertimento dei tifosi presenti durante la competizione: il consumo di birra allo stadio avrebbe permesso di godere più a fondo dell’evento. Quindi Budweiser si posiziona come marca edonista, estroversa, aperta al divertimento che sport e stare insieme permettono. La risposta di Nike è per me meno facile da anticipare. Sin qui, abbiamo assistito al muscolare spot prodotto per l’occasione e intitolato "Footballverse". Riunendo in un campo virtuale una dozzina di campioni, rigorosamente sponsorizzati Nike, del presente e del passato, lo spot è in linea con Budweiser nel celebrare la magia del calcio. Sul suo account Instagram, Nike ha poi postato il 21 novembre scorso l’ormai celebre slogan "OneLove", con cui la marca propone un riavvicinamento con la comunità LGBTQ+. Leggendo i commenti dei follower, questa mossa viene ampiamente criticata come ipocrita. Proprio per questo, credo che in questo momento Nike limiterà qualsiasi mossa apertamente difensiva, trovandosi sotto stretta sorveglianza di molti consumatori, associazioni e organizzazioni no profit. Potremmo concludere che un discreto silenzio potrebbe essere l’azione più prudente per non smuovere ulteriormente delle critiche. Quindi non mi aspetto che queste marche facciano necessariamente qualcosa di troppo evidente».
Al momento non abbiamo assistito a scene plateali, ma, secondo lei, queste grandi aziende hanno previsto un piano B nel caso di condanne da parte di associazioni e organizzazioni per i diritti umani?
«Con gli investimenti che sono in gioco, con l’enorme visibilità di questo evento e con l’elevata strutturazione delle loro divisioni marketing e comunicazione, è impensabile che multinazionali di questo calibro non abbiano previsto implicazioni e rischi derivanti dalla loro presenza come sponsor ai Mondiali qatarini. Le prime azioni comunicative richiamate sono l’espressione delle linee di intervento già previste. Sinceramente non so anticipare le prossime mosse, né se ve ne saranno. Molte delle marche ricordate hanno sponsorizzato i Mondiali di calcio da molte edizioni. Per questi brand, ipotizzo che la linea argomentativa sottolinei la loro volontà di non far mancare il loro supporto a un evento a cui hanno sempre creduto, ancorché ospitato in un Paese da cui possono prendere ideologicamente le distanze. In pratica, queste marche non avrebbero scelto il Qatar come terreno di business, ma si sarebbero volute associare ai Mondiali, come hanno dimostrato con le sponsorizzazioni passate. Potrebbero quindi giocare con il dubbio che siano le prime a non essere contente che i Mondiali si tengano in Qatar. Ma come resistere alla volontà di garantire il proprio sostegno ad un evento così amato e così importante per il calcio? Un ulteriore argomento già tentato, ma rapidamente tacciato di ‘sportwashing’, è stato che la loro presenza in Qatar voleva servire da occasione di cambiamento, proprio in virtù dei valori progressisti e inclusivi di cui sono promotrici».
Non c’è un po’ di ipocrisia da parte di alcune marche che predicano determinati valori in Occidente e poi sembrano scordarsene quando fanno pubblicità in Paesi che calpestano i diritti umani? Penso, ad esempio, a quando BMW, per il mese del Pride, cambiò l’immagine profilo sui social utilizzando la bandiera arcobaleno, ma non fece la stessa cosa per i suoi account rivolti al Medio Oriente.
«Quando si arriva a questi livelli di adattamento della propria comunicazione, concordo con lei, c’è dell’ipocrisia. È chiaro che queste strategie diventano tanto più problematiche quanto più una marca assume una funzione guida o si professa agente di cambiamento. Se una marca è invece molto chiara e dice “facciamo business”, fintanto che lo fa in maniera trasparente, contenendo il proprio impatto ambientale, e nel rispetto delle leggi, sorprende meno che modifichi la propria comunicazione per massimizzare le opportunità di business. Quindi, in un contesto in cui la sensibilità culturale è di un certo tipo, con leggi di un certo tipo, queste aziende adatteranno la loro strategia di marketing a quelle che sono le specificità del contesto. È quello che, nel marketing internazionale, si chiama il principio dell’adattamento locale, in uso da moltissimi decenni. Per tornare alla sua domanda, in contesti di questo genere, non mi sorprende che una marca possa rimuovere la bandiera LGBTQ+ in un contesto dove questa non è benaccetta. Però, quando parliamo di marche ideologiche come quelle citate in precedenza, la questione è diversa. Brand come Nike, Coca-Cola o Budweiser non si sono mai limitati a presentarsi ai propri clienti come puri attori commerciali. Al contrario, hanno adottato la strategia di promuoversi come agenti di cambiamento. Per marche di questo tipo diventa per molti difficile accettare che predichino certi valori per poi non applicarli. Faccio un esempio: anni fa Benetton lanciò una campagna contro la pena di morte che le costò l'esclusione da una serie di retail in alcuni Stati degli USA, dove la pena di morte era ancora praticata. La marca non fece un passo indietro, disse: ”Questi sono i valori in cui crediamo e proseguiamo con la nostra campagna. Non ci volete nei vostri negozi? Benissimo, ma noi non cambiamo”. Questo è chiaramente un messaggio che conferma il ruolo politico e ideologico di una marca».
Crede che il Black Friday e il Natale siano due banchi di prova per le marche presenti ai Mondiali? Potremmo assistere a dei boicottaggi?
«Non lo escludo, ma è presto per dirlo con certezza. Le polemiche però sono talmente fresche che non sarei sorpreso se ci fossero degli effetti immediati, anche sulle vendite. Quindi, possiamo attenderci che quei consumatori che reagiranno di pancia puniranno con una contrazione degli acquisti quelle marche messe in questo momento "sotto quarantena”. Possiamo anche attenderci che gli stessi consumatori spostino i propri acquisti a vantaggio dei brand che stanno utilizzando queste polemiche come una sorta di "cavallo di Troia" per conquistare quote di mercato, attraverso un discorso critico sulla presenza a Qatar2022. E qui, allora, bisogna chiedersi se sia giusto delegare ai brand messaggi ideologici».
Cosa intende?
«Ha senso aspettarsi che le marche assolvono a delle funzioni che vanno molto al di là della semplice identificazione dei prodotti fatti da un'impresa? È corretto e utile? Va a benefico di una collettività il fatto che i brand abbiano delle funzioni ben diverse da quelle legate al business? È giusto che educhino le persone e che intraprendano azioni politiche? Forse sì, ma sulla questione ci sono ancora molti dibattiti aperti. Non vorrei che passasse il messaggio che sia giusto in ogni contesto che le marche abbiano questo tipo di responsabilità politica all’interno delle nostre società».
E dal punto di vista dell’ecosostenibilità? In questo ambito si possono intraprendere azioni decisamente più tangibili rispetto a veicolare messaggi politici…
«Sul tema della sostenibilità non c'è una strada di ritorno. Ormai l’ecosostenibilità è un must have per qualsiasi azienda. Chi non dimostra di poter ridurre il suo impatto sull'ambiente è destinato a mettere a rischio il proprio business. In questo momento, c’è una sensibilità diversa sui temi ambientali: le aziende che hanno voluto scommettere sulla sostenibilità, e lo hanno fatto ben prima di altre, oggi godono di un vero vantaggio competitivo. Ad esempio, nel settore dell’abbigliamento potremmo citare, tra gli altri, aziende come Patagonia o come Stella McCartney che, in tempi non sospetti, hanno scommesso radicalmente sulla responsabilità verso l'ambiente. Potremmo citare anche Ikea, che da decenni investe in riforestazione, tutela delle acque e riciclaggio, se pensiamo al packaging riciclabile al 100%, introdotto ben prima che questo diventasse uno standard. Queste aziende hanno rafforzato la propria reputazione, perché possono (di)mostrare di averci creduto e investito da tempo, mentre altre ci stanno arrivando forzate dagli eventi. Queste ultime stanno cercando di accorciare un gap concorrenziale, ma è meno probabile che potranno godere di un vantaggio competitivo. Visione e coerenza sono sempre un terreno più solido su cui confrontarsi con i propri mercati…».