Tre anni dopo la fine della dittatura il Sudan è ancora un Paese diviso

Orientarsi nel conflitto che sta di nuovo scuotendo il Sudan «non è semplice», ammette Stefano Bellucci, docente di storia dell’Africa e di Economia politica dell’Africa all’Università di Leida, in Olanda, e autore, per Carocci, di Storia delle guerre africane. Dalla fine del colonialismo al neoliberalismo globale e di Africa contemporanea. Politica, cultura, istituzioni a Sud del Sahara.
«Il Sudan - spiega Bellucci al CdT - è un Paese molto avvezzo alla guerra; il Nord musulmano e il Sud cristiano si sono fronteggiati sin dagli anni ’50 del Novecento, uno scontro concluso nel 2011 con la nascita del Sud Sudan. Le armi sono sempre state uno strumento molto diffuso tra la popolazione, ma soprattutto sono state il mezzo utilizzato dalle classi dirigenti per risolvere i problemi o accaparrarsi risorse».
Se fino a qualche anno fa la guerra spaccava il territorio sudanese orizzontalmente, oggi - nel Nord quasi completamente omogeno sul piano religioso - lo squarcio è verticale, tra l’Ovest, il cosiddetto Darfur, e l’Est del Paese.
«Nel Sudan islamico c’è una questione culturale - dice ancora Bellucci - relativa alle popolazioni che parlano o non parlano arabo; ma c’è anche una questione economica. In Darfur si estrae l’oro, mentre al Centro c’è il petrolio. E purtroppo, ancora una volta, le armi si sono fatte strumento di risoluzione delle controversie politiche ed economiche».


Esercito contro milizie
Dopo la conclusione, nel 2019, della lunghissima dittatura di Omar Hassan al-Bashir, finito sotto inchiesta della Corte penale internazionale (CPI) con l’accusa di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, il Sudan è nelle mani di due generali: Abdel Fattah al-Burhan, che controlla l’Est e ha in mano Esercito e Aeronautica, e Mohamed Dagalo meglio conosciuto come Hemeti, ex comandante delle famigerate milizie Janjaweed, responsabili delle peggiori atrocità in Darfur.
«La presenza delle milizie mercenarie è sempre stata una costante in Sudan - dice Bellucci - dalla sua Hemeti ha uomini molto ben armati e addestrati, con esperienza di combattimento nello Yemen, a fianco dell’Arabia Saudita, e altrove. Dall’altra parte, al-Burhan può contare sulle truppe regolari. I due si erano accordati per portare a termine entro dicembre 2022 la fase di transizione, risolvendo in particolare un paio di questioni fondamentali: l’assorbimento delle forze speciali e delle milizie nell’Esercito e il passaggio dal governo militare a quello civile».
Le cose, però, non sono andate come previsto. Hemeti vorrebbe continuare nella sua politica di sfruttamento dei giacimenti auriferi e dice che serve più tempo per passare al governo civile. Al-Burhan vorrebbe invece il sostanziale scioglimento delle milizie. Così, il conflitto è esploso.
«Non sono mai stato un fautore dell’interventismo in Africa - dice ancora il professor Bellucci - ma in Sudan, nel 2019, è caduto un dittatore a capo di un governo islamico; era stato avviato un processo democratico dal basso, e l’Occidente è stato negligente a non appoggiare questa transizione, magari con accordi e aiuti economici diretti. Sulla realtà attuale ha pesato poi anche l’assenza dei due grandi attori internazionali, vale a dire l’ONU, alla quale tra l’altro viene imputata la divisione del Paese, e l’Unione Africana».
Sullo sfondo della contesa si staglia l’ombra della Cina, «Paese - conclude Bellucci - che ha investito moltissimo nel Sudan per lo sfruttamento del petrolio. Il Governo di Pechino è sempre molto guardingo, non si occupa mai delle questioni politiche interne ma soltanto dell’economia. In questo frangente, potrebbe fare da mediatore. Assumendo così un ruolo dominante».