Il caso

Truffe nella beneficenza per il Medio Oriente: ecco come riconoscere le fondazioni fittizie

In momenti di crisi mondiale, tanti criminali puntano a sfruttare l'empatia e la generosità a fini egoistici – Come agiscono i truffatori? Ne abbiamo parlato con Alessandro Trivilini, responsabile del servizio informatica forense SUPSI
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Giacomo Butti
10.11.2023 09:00

Empatia. La capacità di capire, o addirittura sentire e quindi condividere, ciò che un'altra persona sta vivendo: sentimenti positivi o negativi. Mettersi nei panni di un altro, insomma. C'è chi di empatia ne ha tanta e chi ne ha poca. C'è chi, poi, sfrutta quella degli altri per fini egoistici. È il caso delle truffe sulla solidarietà, sempre più numerose in questi giorni di guerra e morte, quando le emozioni scorrono più forti. Lo abbiamo visto con l'invasione russa dell'Ucraina, lo vediamo ora con la guerra in Medio Oriente. Nate dal nulla, di settimana in settimana, nuove organizzazioni di beneficenza si propongono come tramite fra chi vuole fare del bene e la popolazione locale in difficoltà (israeliana o palestinese che sia). Spesso, lo fanno sul web, sponsorizzando su Facebook o altri social gli annunci riguardanti le proprie opere caritatevoli. La verità? Fin troppo spesso, il denaro donato a queste organizzazioni non fa altro che finire nelle mani sbagliate. Come distinguere, allora, fra chi vuole davvero aiutare e chi, invece, punta solo ad approfittarsi della nostra empatia? Ne abbiamo parlato con Alessandro Trivilini, responsabile del servizio informatica forense SUPSI.

Due tipi di truffe

«Le frodi sulla beneficenza si basano su siti web o luoghi virtuali all'interno dei social strettamente legati a eventi ad alto tasso emotivo. Stiamo parlando di guerre, incidenti, calamità naturali. Momenti, insomma, dove le persone vivono una situazione di disagio: ciò crea e alimenta un'alterazione emotiva in chi accede a questi contenuti multimediali, alterazione che viene sfruttata fondamentalmente per due tipi di truffe». La prima è quella già accennata: «Questo tipo di truffa punta a modificare le emozioni di chi legge per portarlo a versare dei soldi a fini umanitari. In realtà, poi, questi fondi vanno ad arricchire singoli gruppi criminali che sfruttano queste tragedie. In questo caso i truffatori puntano a raccogliere rapidamente più denaro possibile, per poi mettere offline il sito e sparire dalla circolazione nel minor tempo possibile».

Questi criminali, evidenzia l'esperto, si rivolgono a tutte le persone che vivono in rete, qualsiasi sia l'età o ceto sociale. «Ma convogliano la loro attività, in particolare, verso Paesi dove c'è benessere sociale e stabilità economica». Dove, insomma, è più facile che l'empatia si traduca in una donazione in denaro. E la Svizzera è la preda perfetta. «Un like o un commento a un post pubblico possono avviare il processo che porta i truffatori ad avvicinare la vittima, a bussare agli schermi delle persone che hanno reagito al determinato contenuto». Il sistema, insomma, è bidirezionale, evidenzia Trivilini. «C'è pull e push, per usare termini tecnici. Non è solo l'utente che può andare a cercare questi siti, ma è il sistema che in modo collaborativo manda le informazioni all'utente. Esattamente come avviene con Amazon che, dal momento in cui cerco un libro online, fa di tutto per propormi libri che abbiano un'affinità con i miei interessi».

Ma c'è chi è interessato a qualcosa di più dei soldi. «L'altra tipologia di truffa, pur passando dalla finta beneficenza, punta a qualcosa di diverso dal semplice arricchimento di un gruppo criminale: alimentare il terrorismo. È quanto riscontrato anni fa nell’ondata di attacchi in Europa da parte dell'ISIS».

Trivilini ci spiega il meccanismo: «L'obiettivo, in questo caso, è quello di radicalizzare, innescando una sorta di economia circolare del crimine costruita attorno a situazioni di disagio emotivo». Guerra, povertà, conflitti interreligiosi: ogni motivo è buono. «Le fondazioni fittizie si propongono come organizzazioni fidate, concrete. E lanciano – per usare un termine usato dai pescatori – la pastura con cui attirare le proprie vittime, attraverso il proprio sito o i social». Chi si avvicina, entra in un circolo vizioso da cui è difficile uscire: «Se una persona inizia a cliccare e a cercare informazioni, ciò viene facilmente tracciato. Una volta carpiti gli interessi, si attivano le procedure informatiche automatizzate, con l'intelligenza artificiale, per generare nuovi contenuti che possano rafforzare la convinzione che le informazioni visualizzate sul sito siano autorevoli. Chi poi finisce a donare a queste fondazioni fittizie, può essere emotivamente predisposto a fare un passo in più». E, qui, le organizzazioni criminali lanciano l'amo: «Scatta, allora, la richiesta di contatto: un'email personale, un numero di telefono. In un attimo si passa dal luogo pubblico – i social, il sito o il blog della fondazione, che tutti possono vedere – al privato. E qui inizia un dialogo di persuasione e di avvicinamento con il quale viene attivato un processo di radicalizzazione su un terreno comune per il quale la vittima ha già dimostrato interesse. Con una comunicazione martellante, la realtà viene manipolata per isolare la persona da ogni contatto parentale, familiare, professionale, di amicizia». Un lavaggio del cervello. «Alla vittima vengono imposte false credenze basate su contenuti simili a quelli che lo hanno attratto all'inizio. Alla fine, quando la radicalizzazione è completa, la persona diventa una sorta di ambasciatore, a sua volta impegnato nel diffondere il pensiero in rete».

Le precauzioni

Arriviamo al dunque. Quali accorgimenti si possono prendere per evitare queste truffe? «I sistemi classici non sbagliano mai», evidenzia Trivilini. Indagare, indagare, indagare: «Bisogna testare l'autorevolezza del sito in questione. Verificare numero di telefono, email, indirizzo. Navigare i social e il web e trovare testimonianze credibili e verificabili». Ma la mera esistenza di questi elementi non basta: «Siamo nell'era dell’intelligenza artificiale (AI) generativa: coloro che costruiscono questi contenuti non li affidano più solo a delle persone, ma si avvalgono del rinforzo dell'AI per generare contenuti sempre più efficaci e persuasivi. Quindi, dopo aver trovato un indirizzo o un numero di telefono, non bisogna accontentarsi. Bisogna chiamare, mandare e-mail, instaurare un dialogo e fare domande (anche a trabocchetto). Prendersi tutto il tempo necessario, insomma, prima di versare i soldi. Si tratta di una verifica basata sull'esperienza, ma anche e soprattutto sul buonsenso: le risposte che mi arrivano sono davvero credibili? Gli indizi raccolti fanno pensare di essere di fronte a un sito legittimo?».

Non solo. «Su questi siti i contenuti che più vengono messi in evidenza sono tendenzialmente quelli ad alto tasso emotivo, come fotografie con bambini o anziani in una situazione di disagio: sono quelle che emotivamente ci coinvolgono di più. Ma quando i contenuti ad alto tasso emotivo sono così sbandierati, bisogna essere prudenti». I siti affidabili, «nell'era della privacy e della protezione dei dati personali», sono in grado di muoversi con maggiore discrezione.

Ma ci sono anche strumenti specifici che possono dare una mano. Come whois.domaintools.com, spiega Trivilini. «Inserire l'indirizzo web della fondazione sospetta in questo strumento di ricerca permette di scoprire qualcosina sul sito stesso: come la data in cui è stato creato e il suo domicilio digitale».

Il caso

Un caso specifico? Quello nell'immagine sopra, segnalatoci negli scorsi giorni perché comparsa fra le sponsorizzazioni Facebook di un lettore. Palestine Care Foundation vende gioielli promettendo di devolvere «parte del ricavato» al sostegno della popolazione palestinese. Applichiamo gli strumenti forniti da Trivilini. Digitando l'url di palestinecare.org sullo strumento whois.domaintools.com, scopriamo che il dominio è registrato a un provider americano (GoDaddy, già coinvolto in diverse controversie legate a pratiche commerciali non etiche), da soli 25 giorni. Un dato sospetto? «È qualcosa di cui tenere conto: è vero che le associazioni umanitarie nascono e crescono quando c'è la necessità, però solitamente si appoggiano a strutture storiche», risponde l'esperto.

Andiamo sul sito della fondazione. Come detto, Palestine Care Foundation promette di indirizzare parte del ricavato (quanto? Non si sa) dalla vendita di gioielli alla popolazione palestinese. L'organizzazione, che dice di operare direttamente sul territorio tramite organizzazioni terze (non nominate), non fornisce tuttavia alcun dato su come l'aiuto venga recapitato ai bisognosi. Non esiste, poi, un modo per contattare la Palestine Care Foundation (esiste solo una newsletter), né un numero di telefono né una e-mail. Esistono possibilità di stage, ma non c'è modo di rivolgersi all'organizzazione.

Peggio: il "charity number" con il quale Palestine Care Foundation attesta la propria registrazione alla Charity Commission for England and Wales, 318159, non esiste. Pur costruito bene, il sito non fornisce alcuna informazione specifica sull'attività dell'organizzazione.

Cosa ci dice il buonsenso? Che il sito è, quantomeno, sospetto. Attenzione!