L'analisi

Tutte le lacune delle sanzioni: così l’economia russa resiste alla guerra

Dopo due anni dall'invasione dell'Ucraina, il Paese di Putin non è crollato sotto il peso delle restrizioni: al di là della reazione di Mosca, nelle misure internazionali sono emerse diverse falle
©MAXIM SHIPENKOV
Michele Montanari
26.02.2024 19:15

Sulla carta un drone kamikaze è uno strumento devastante, nella realtà dei fatti si possono prendere contromisure: un buon sistema antiaereo è in grado di intercettarlo e abbatterlo. In teoria le sanzioni contro la Russia avrebbero dovuto mettere a dura prova l’economia del Paese di Putin. Nella pratica, però, la capacità di Mosca di sapersi riorganizzare ha smorzato gli effetti delle misure imposte dall’Occidente. E la colpa è anche dei Paesi che le hanno applicate senza avere gli strumenti necessari per farle rispettare. Dopo i primi promettenti risultati, come il crollo del rublo, un sistema industriale indebolito e la fuga dei grandi marchi occidentali, oggi parte degli analisti e dei media internazionali si trova a fare i conti con la realtà: le sanzioni non hanno affondato l’economia russa. Anzi, questa sembra stare decisamente meglio del previsto. Subito dopo l’inizio della guerra, il Fondo monetario internazionale (FMI) aveva previsto che l’economia del Paese invasore avrebbe subito una grave recessione di due anni, con una contrazione dell’8,5% nel 2022 e di un ulteriore 2,3% nel 2023. Nel 2022, la contrazione c’è stata, ma solo di poco più del 2%. Mentre nel 2023, stando alle ultime stime del FMI, l'economia è addirittura cresciuta del 3%.

Tra volontà politica e carenza di risorse

Ma come è possibile? Le sanzioni hanno fallito? Negli scorsi giorni, proprio mentre l’UE lanciava un nuovo pacchetto di misure contro la Russia, alcune delle quali legate alla morte dell’oppositore Alexei Navalny, Politico ha dedicato un ampio approfondimento alla questione, cercando di capire perché le restrizioni internazionali abbiano evidenziato lacune. Oggi le fabbriche russe operano a pieno regime, le vendite di petrolio e gas sono relativamente forti e la gente lavora in un sistema quasi totalmente incentrato sulla guerra. Questo perché – al di là della reazione di Mosca – le sanzioni hanno mostrato almeno due grandi punti deboli, principalmente legati alla volontà politica e la capacità tecnica dei diversi Paesi che le hanno adottate.

Per applicare le restrizioni, infatti, sono necessarie importanti risorse finanziarie, ma anche sistemi legali e di controllo. Questi sono fondamentali, ad esempio, quando si tratta di congelare i beni dei cosiddetti oligarchi, ma anche per assumere ispettori nei porti commerciali, assicurandosi che facciano un lavoro capillare. Ovviamente tra chi si è messo di traverso alla Russia, sono emerse disparità in termini di risorse, per questo l’applicazione delle misure non risulta bilanciata tra i Paesi che le hanno adottate.

Gli Stati Uniti utilizzano da anni questi strumenti e hanno leggi, risorse e organismi governativi, come l’Ufficio per il controllo dei beni esteri (OFAC) del Dipartimento del Tesoro, dedicati a rintracciare chi viola le restrizioni. Altri, invece, hanno sistemi meno solidi e minori capacità di colpire i trasgressori. Washington, inoltre, applica anche «sanzioni secondarie», così da penalizzare enti con sede all’estero che fanno affari con i russi sanzionati. Solamente venerdì scorso, il Dipartimento del Tesoro ha annunciato ulteriori restrizioni nei confronti di 26 entità in 11 Paesi, tra cui Cina, Serbia, Emirati Arabi Uniti e Liechtenstein.

Vi è poi una questione politica che complica ulteriormente l’equazione: quando un Paese ha bisogno di cooperare con un altro, è difficile che rovini i «buoni rapporti» facendo pressioni affinché smetta di acquistare prodotti russi. Basti pensare a come Stati Uniti e Unione europea non abbiano in nessun modo impensierito la Cina per i suoi flussi commerciali con il Paese di Putin. Dunque, per essere davvero efficaci, le sanzioni dovrebbero essere accompagnate da tutto un corollario di controlli, regolamenti e relazioni internazionali, che al momento sembrano mancare.

Un'economia alla lunga «insostenibile»

Secondo Kim Donovan, analista economico del think tank Atlantic Council di Washington, «le sanzioni e altre misure economiche da sole non basteranno a vincere questa guerra», specialmente a breve termine. Alcuni meccanismi, come i controlli sulle esportazioni, potrebbero infatti richiedere anni per risultare davvero efficaci. I funzionari internazionali favorevoli ai vari pacchetti di restrizioni confidano nel fattore tempo: secondo loro l’economia russa è stata gravemente danneggiata e tutto ciò che il Cremlino sta facendo per sostenerla non funzionerà sulla lunga distanza. Quella russa appare infatti un’economia basata completamente sulla guerra e ciò, secondo gli analisti, arriverà a danneggiare la stabilità sociale del Paese. L'obiettivo dovrebbe essere dunque quello di «accelerare il ritmo con cui (i russi) si stanno spostando verso una situazione destinata ad essere insostenibile».

Non tutti sono però così ottimisti. Per il ​​vice-segretario al Dipartimento del Tesoro, Wally Adeyemo, «le sanzioni da sole non sono sufficienti», ma - e su questo punto sta spingendo l'Amministrazione Biden - sono necessari i finanziamenti e gli aiuti militari bloccati dal Congresso degli Stati Uniti.

Chi commercia con la Russia

Inutile dire che il gas e il petrolio continuano ad avere un ruolo centrale per le casse del Cremlino. Il settore dei combustibili fossili è stato risparmiato per evitare gravi turbolenze sui mercati energetici globali, ma questo ha permesso a una significativa quantità di capitali di continuare a fluire nell’economia russa. Nel 2022 circa il 60% del petrolio proveniente dalla Russia era stato trasportato in petroliere europee, mentre alla fine dell’anno i Paesi del G7 hanno imposto un tetto massimo di prezzo, vietando di trasportare il petrolio russo che non fosse venduto a meno di 60 dollari al barile. Questo ha portato a un mercato parallelo, anche attraverso le cosiddette «flotte ombra», in cui gran parte degli idrocarburi russi vengono venduti a un prezzo più alto. Cina, India e Turchia e Brasile sono i Paesi che di fatto hanno sostituito l’Occidente nelle importazioni. Pechino è pure il maggior fornitore di tecnologia occidentale, specialmente microchip, della Russia. Merce non solo destinata all’uso militare: prima della guerra, le auto prodotte in Cina costituivano soltanto il 10% del mercato russo, ancora dominato dai grandi marchi europei, mentre oggi le vetture asiatiche rappresentano il 55% del totale. Poi ci sono i Paesi confinanti, tra cui Uzbekistan, Kazakistan, Kirghizistan e Armenia, probabilmente coinvolti in sospette triangolazioni commerciali con l'Occidente.

Per essere davvero efficaci, le sanzioni dovrebbero inoltre colpire tutti gli enti che fanno affari con Mosca, nonostante operino in Paesi che hanno adottato le misure internazionali: questo significa rafforzare i controlli sulle esportazioni. L’UE, in tal senso, ha lanciato l'idea di creare un'autorità a livello europeo per supervisionare l'applicazione delle restrizioni. La Commissione europea, inoltre, ha mandato una lettera ai Paesi membri in cui chiede di prestare attenzione alle molte aziende europee che continuano a vendere merce proibita alla Russia, tra cui forniture militari.

I controlli sulle esportazioni

I controlli sulle esportazioni mirano a impedire che determinati prodotti, come i microchip, finiscano nella terra di Putin ma, secondo Politico, esistono due sistemi «abbastanza semplici» per aggirare i controlli sulle esportazioni. Il primo prevede la «rietichettatura» di una spedizione in un Paese terzo: Turchia, Emirati Arabi Uniti e Cina sono noti trasgressori. Un’azienda occidentale che vende un determinato prodotto a un cliente di Pechino, ad esempio, non ha l’obbligo di seguire tutto ciò che accade alla merce, così la sua origine può venire mascherata.

Il secondo metodo consiste nel fingere che una spedizione debba attraversare la Russia per andare in Asia centrale o verso il Caucaso meridionale, solo che poi i prodotti, in realtà, non usciranno mai dai confini. Un caso del genere è stato scoperto l'anno scorso, quando una società finlandese ha venduto apparecchiature radar destinate a un aeroporto in Kazakistan.

«Putin era pronto alla guerra»

Se si sommano queste lacune al supporto fornito dall'Iran – che oltre ai droni kamikaze avrebbe iniziato a spedire pure missili balistici terra-terra – e dalla Corea del Nord, appare evidente come Mosca sia tutt’altro che isolata. Secondo Tim Ash del think tank Chatham House, Putin ha preparato per anni il suo Paese al conflitto, utilizzando i proventi del petrolio e del gas per accumulare riserve e adottando misure per rendere l’economia resistente alle sanzioni. Citato dal Guardian, l’esperto ha sottolineato come la resilienza della Russia di fronte al conflitto e le restrizioni non sia sorprendente: «Solo Putin sapeva che ci sarebbe stata una guerra e si era preparato. Però è chiaro che le sanzioni stanno rimuovendo parte delle riserve finanziarie e delle scorte accumulate prima dell’invasione» dell'Ucraina.

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