«Tutto ciò che abbiamo costruito nel controllo degli armamenti è ora messo in discussione»

«I siti nucleari di Teheran sono stati completamente e totalmente cancellati». Così, lo scorso fine settimana, il presidente statunitense Donald Trump ha salutato l’operazione effettuata dai bombardieri B2 contro l’Iran, dopo giorni di raid israeliani. Oggi, tuttavia, l’entità dei danni inflitti all’importante impianto sotterraneo di Fordow, così come quella ai siti di Isfahan e Natanz, non è ancora stata chiarita. Con Jean-Marc Rickli, direttore della sezione Rischi globali ed emergenti al Centro di Ginevra per la politica di sicurezza (GCSP) facciamo il punto della situazione.
Valutazioni
Non senza pressioni da parte di Trump, Israele ha accettato un cessate il fuoco con l’Iran. La tregua, tuttavia, arriva in un momento in cui è forte - anche tra gli ufficiali americani - il dubbio che parte della strumentazione nucleare (e dell’uranio arricchito) possa essere sopravvissuta, spostata dai pasdaran prima degli attacchi statunitensi. L’attacco di Tel Aviv e Washington non ha raggiunto i suoi obiettivi? «È troppo presto per dirlo», risponde Rickli. Israele, ricorda l’esperto, «aveva l’obiettivo di distruggere le capacità di arricchimento dell’uranio dell’Iran, insieme a quelle balistiche». Capire che cosa resti del programma nucleare iraniano, tuttavia, è difficile. «Possiamo dire che, con ogni probabilità, queste capacità siano state degradate, visti i danni molto significativi riportati, esternamente, dalle strutture nucleari. Non abbiamo ancora, tuttavia, una valutazione complessiva dei danni riportati in profondità dai siti atomici. Non sappiamo se i bombardamenti abbiano colpito o meno le centrifughe e il materiale atomico, o se questi siano stati effettivamente spostati». Israele, ricorda Rickli, è riuscito a ottenere, anche, un «deterioramento della scala di comando iraniana», uccidendo una serie di alti ufficiali. Ciononostante, «l’obiettivo probabile del governo Netanyahu (meno dall’amministrazione Trump) di un cambio di regime a Teheran non è stato raggiunto».
Concretamente, valuta l’esperto, Israele ha messo in campo una strategia già usata con Hamas e Hezbollah, quella che in gergo si definisce mow the lawn, falciare il prato. «Eliminare completamente questi movimenti è estremamente difficile. Decapitarli regolarmente, invece, permette di guadagnare tempo. Con l’Iran, Israele ha guadagnato del tempo. Ma non è chiaro esattamente quanto. Mesi? Settimane? Tutto dipende, appunto, dall’entità del danno ai siti nucleari».
Minaccia crescente
Il timore, tuttavia, è che un attacco del genere, invece di dissuadere possa incentivare. Teheran, ora, cercherà con più determinazione di costruirsi un arsenale nucleare, e in totale segretezza? «È una possibilità. Quando si taglia il prato, si sa che l’erba ricrescerà». E, a volte, con più forza. «L’Iran, ad esempio, potrebbe ritirarsi dal Trattato di non proliferazione nucleare (TNP) che proibisce di sviluppare un’arma nucleare, come fatto dalla Corea del Nord nel 2003». Una mossa che permetterebbe a Teheran di sottrarsi anche ai controlli obbligatori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA). «Ciò invierebbe chiaramente un segnale negativo sul regime di non proliferazione». Negli ultimi mesi, il controllo degli armamenti sta subendo duri colpi, ricorda Rickli. «I Paesi baltici, la Polonia e Finlandia, ad esempio, hanno deciso - dopo quanto osservato nella guerra in Ucraina - di ritirarsi dalla Convenzione sulle mine antiuomo, un trattato simbolo della governance internazionale. Ci troviamo, evidentemente, in un mondo molto più polarizzato, e tutto ciò che abbiamo costruito negli ultimi 30 anni in termini di controllo degli armamenti viene sempre più messo in discussione». L’eventuale uscita di Teheran dal TNP «avrebbe un impatto più che simbolico», ma potrebbe fungere da esempio negativo. «Alcuni Stati potrebbero cominciare a chiedersi se l’Iran o l’Ucraina sarebbero stati ugualmente colpiti se avessero avuto armi nucleari». Ed essere incentivati, a loro volta, a una corsa al nucleare.
Debolezze
Intanto, l’Alleanza atlantica affronta una fase delicata. «I Paesi che compongono la NATO sono molto divisi sulla questione di Gaza, ma per quanto riguarda l’Iran c’è un certo consenso. Non credo che l’unità della NATO sia messa in pericolo dall’operazione statunitense su Teheran, quanto più dalla difficoltà ad avere a che fare con la nuova amministrazione americana, con Donald Trump». In generale, evidenzia Rickli, l’Europa sta faticando a rimanere al passo con il tycoon. «Le potenze europee hanno cercato di riprendere il sopravvento a livello diplomatico, organizzando a Ginevra - con il formato E3 - un incontro con l’Iran». Tutto inutile: il presidente americano, nel frattempo, aveva già deciso di bombardare Teheran. «Per Trump gli europei non esistono. O esistono solo come strumenti. Si tratta di un cambiamento importante nell’equilibrio transatlantico, al quale l’Europa fatica a rispondere perché non riesce a parlare con una sola voce», su Israele in particolare. «Più parti ci sono intorno al tavolo, più è difficile farsi sentire e decidere», sottolinea Rickli, e il dissenso fra i 27, forte su molti argomenti, «mette le potenze europee si trovano in una situazione difficile, sia dal punto di vista militare sia da quello diplomatico».
E la Svizzera? «Per il momento, sulla questione israelo-iraniana, ha cercato di fare ciò che sa fare meglio: i buoni uffici». La sua ambasciata a Teheran, dove Berna - tra l’altro - rappresenta gli interessi degli Stati Uniti, è stata tuttavia chiusa ed evacuata dopo gli attacchi israeliani. «Per sua stessa natura, il sistema svizzero non è proattivo, ma reattivo. La Confederazione continua a svolgere il suo ruolo di buon ufficio di mediazione, ma quando la situazione si fa incandescente, nel mezzo delle ostilità, è molto difficile farsi ascoltare».
Berna sta perdendo terreno dal profilo diplomatico? «Il mondo sta cambiando e tutto viene usato come arma. Quando la Svizzera ha sostenuto le sanzioni contro la Russia, ad esempio, Mosca ha sfruttato il caso per definire la Confederazione «non più neutrale». Allo stesso tempo, altri Stati che in passato non erano coinvolti nella mediazione sono venuti alla ribalta, come la Turchia nel caso dell’Ucraina, o l’Arabia Saudita e il Qatar in Medio Oriente». Paesi simili potrebbero, sempre più, attirare l’attenzione di organizzazioni internazionali e, magari, divenirne sede: «Si tratta di Stati con grandi mezzi finanziari, senza i costi immobiliari svizzeri. Ginevra - e la Svizzera - è ancora un luogo molto importante per la governance internazionale, ma bisogna rendersi conto che il mondo è molto più polarizzato e anche molto più competitivo».