L'analisi

Un anno di guerra: Ucraina, la nuova frontiera

Da Kennedy a Biden, ecco perché l'Occidente combatte per preservare i valori dello Stato di diritto dalla prepotenza delle autocrazie orientali
© UKRAINIAN PRESIDENTIAL PRESS SER
Luca Lovisolo
23.02.2023 13:30

È ancora buio, a Mosca, alle cinque del mattino del 26 aprile 1986. Al Cremlino squilla il telefono. Michail Sergeevič Gorbačëv, da tredici mesi nuovo leader dell’Unione sovietica, risponde. È Nikolaj Ivanovič Ryžkov, capo del governo: «Michail Sergeevič, c’è stato un incidente alla centrale nucleare di Černobyl', in Ucraina. Dobbiamo organizzare subito una riunione». Gorbačëv replica: «Un incidente? Ma cosa è successo?». Ryžkov: «Un incendio, dicono, un incendio». Gorbačëv: «Ma come, un incendio? Mi volete dire cos’è successo?». Ryžkov: «Un incendio, dicono. Organizziamoci e mandiamo qualcuno a vedere». 

Così, nelle sue memorie e in decine di interviste, Gorbačëv racconta come viene informato del disastro di Černobyl'. Nel 1986 l’Ucraina è ancora una repubblica dell’Unione sovietica. Chi ha lavorato a fianco di Volodymyr Ščerbyckyj, Primo segretario del Partito comunista ucraino, la massima autorità della Repubblica, ricorda che per giorni il governo dell’Ucraina non viene informato della gravità dei fatti. Le centrali nucleari erano isole extraterritoriali controllate direttamente da Mosca. Mentre dalle macerie del reattore numero quattro sale una colonna di emissioni radioattive che contaminano l’intera regione, nella capitale ucraina la manifestazione del Primo maggio si tiene come se niente fosse, a meno di 150 chilometri da Černobyl'. «Ščerbyckyj fu accusato di non aver impedito la manifestazione […] ma io oso dire che non conosceva la dimensione reale della minaccia […] La questione era stata decisa la sera prima dal Politbjuro [a Mosca]» racconta con amarezza Vitalyj Vrublevskyj, che era stretto collaboratore di Ščerbyckyj e ha lasciato una monografia in russo dedicata al leader comunista, che per gli ucraini resta una figura controversa (Dovira, Kyiv, 1993). 

Da anni Ščerbyckyj lamentava i continui guasti alle centrali nucleari sul territorio ucraino. Nel 1983 aveva scritto a Mosca, sollecitando interventi. Nessuno gli aveva risposto. Dopo Černobyl', Ščerbyckyj cade in una profonda depressione. Morirà nel 1990 in circostanze mai chiarite, che molti riconducono a suicidio. Forse Ščerbyckyj qualcosa sapeva, ma non aveva saputo o potuto imporsi: secondo testimoni sentiti dalla Procura dopo la sua morte, era stato minacciato da Mosca di espulsione dal Partito, se avesse vietato il corteo del Primo maggio. 

Il «primo calcio»

Non è necessario proseguire qui il racconto di Černobyl'. A un anno dalla ripresa della guerra ci interessa sapere il perché fu il primo calcio all’esistenza dell’Unione sovietica, verso l’indipendenza dell’Ucraina. Nella gestione del disastro si trovano tutti gli elementi che motivarono gli ucraini a separarsi dall’URSS. L’incompetenza e le lotte interne del potere sovietico; il gigantismo del regime che si perde in riunioni al vertice; l’impotenza dei governi locali, che subiscono il paternalismo di Mosca; dirigenti delle repubbliche sempre in bilico tra interessi locali e ossequio al partito centrale. 

C’è di più: dopo Černobyl’ la protesta ecologista in Unione sovietica alza i toni. Movimenti ecologisti semiclandestini erano già esistiti: erano stati stimolati dai faraonici progetti per invertire il corso di alcuni grandi fiumi e ricavare nuove terre coltivabili. Stavolta succede anche altro: la protesta ecologista del dopo Černobyl' si salda con le correnti politiche per l’indipendenza dell’Ucraina. Queste, a loro volta, trovano nuova linfa nella pessima gestione del disastro nucleare e nella maggior libertà di espressione portata dalla Perestrojka di Gorbačëv. 

L’economia sovietica crolla: in molte città, per fare la spesa, serve la tessera annonaria, sono razionati persino i detergenti per la casa. Il sistema produttivo e distributivo, centralizzato nei colossi statali GOSPLAN e GOSSNAB, è alla paralisi. Lo Stato sovietico è senza valuta: lo storico ungherese György Dalos, nel suo bel saggio Lebt wohl, Genossen! (Addio, compagni!, BPB, Bonn, 2011), ricorda che in quel momento l’URSS fatica a pagare le fatture del telefono delle ambasciate e i biglietti aerei per i diplomatici. La poltrona di Gorbačëv traballa. L’astro nascente è il leader della Russia sovietica, Boris Eltsin. 

A inizio dicembre 1991 l’Ucraina deve rifornire di gas e petrolio le centrali del riscaldamento, quelle che oggi i russi bombardano senza pietà. La vicina Bielorussia ha lo stesso problema. Dal sistema di approvvigionamento centralizzato dell’Unione sovietica non arriva più nulla. L’allora leader della Bielorussia, Stanislaŭ Šuškevič, racconta che il suo capo del governo un giorno lo chiama e gli dice: «Stanislaŭ, tu hai un buon rapporto con Eltsin. Siamo senza combustibile da riscaldamento, non abbiamo più soldi e nessuno ci fa credito. L’Ucraina è messa come noi. Prova a convincere Eltsin a fermarsi per una battuta di caccia alla Bielaviežskaja Pušča, dopo la visita ufficiale già in calendario. Invitiamo anche gli ucraini. Chiediamo a Eltsin di darci un po’ di gas e petrolio per superare l’inverno». 

Della battuta di caccia è vittima un cinghiale che diventa la cena di quella serata, nella gigantesca tenuta bielorussa al confine con la Polonia. Il giorno dopo, seduti intorno a un tavolo, i leader delle tre repubbliche e i loro capi di governo capiscono che non è ora di parlare di combustibili. La situazione sta precipitando. Il colpo di Stato dell’agosto 1991 è fallito, ma da allora a Gorbačëv più nessuno dà retta. Non si sa nemmeno a chi obbedirebbero le forze armate, in caso di emergenza. Un referendum, pochi giorni prima, ha confermato l’indipendenza dell’Ucraina, che di fatto è già fuori dall’URSS. Decidono. Cominciano a scrivere il trattato che costituisce la Comunità degli Stati indipendenti: poche pagine per conservare le relazioni storiche e commerciali fra i popoli dell’Unione sovietica, prendendo atto che l’Unione è ormai moribonda e buona parte delle repubbliche ha già scelto l’indipendenza. 

Nel preambolo del trattato scrivono una frase che passa alla Storia: con la costituzione della Comunità degli Stati indipendenti «l’Unione sovietica, come soggetto del diritto internazionale e realtà geopolitica, cessa di esistere». Leonid Kravčuk, allora fresco presidente dell’Ucraina, racconta che lui e gli altri seduti intorno al tavolo, quando scorrono la bozza del documento e leggono quella frase, si fermano e si guardano negli occhi. Nel silenzio, qualcuno chiede: «Che facciamo, la lasciamo, questa frase?» La frase rimane. Darà la stura a mille congetture giuridiche, negli anni successivi, ma la Storia non torna indietro. Quella sera l’Unione sovietica finisce di esistere. Meno di venti giorni dopo, Gorbačëv si dimette e il Soviet supremo dell’URSS, nella sua ultima seduta, prende atto della dissoluzione dell’Unione. 

Il cammino dell'Ucraina

A un anno dalla ripresa della guerra su larga scala in Ucraina, queste sono le tappe alle quali dobbiamo ripensare. Il cammino dell’Ucraina parte dall’antica Rus’ e passa per secoli di scontri con la vicina Moscovia; dal trattato di unione del 1654 attraverso la storia dell’Impero russo, sino alla Rivoluzione d’ottobre e alla prima, effimera indipendenza del 1918/19. Meno di settant’anni dopo, la catastrofe di Černobyl' riapre i giochi e la sospirata indipendenza si realizza nel 1991, in un’Unione sovietica al collasso. Nel marzo 2014 il sogno sembra crollare: la Russia invade la Crimea. Il 24 febbraio 2022, un anno fa, la guerra riprende, e siamo alla cronaca d’attualità. 

A febbraio 2023 i vertici dell’Unione europea si riuniscono a Kyiv, poi è il presidente ucraino che viaggia a Londra, Parigi, Bruxelles. Pochi giorni dopo, il Presidente degli Stati uniti Joe Biden giunge nella capitale ucraina. Il pensiero va a un suo predecessore, George Bush padre, che intervenne dinanzi al Parlamento ucraino il primo agosto 1991. Disse ciò che oggi sembra inconcepibile: consigliò agli ucraini di restare nell’Unione sovietica e sostenere la Perestrojka di Gorbačëv. Bush scriverà nelle sue memorie: «Volevo vedere un cambiamento a condizioni stabili e soprattutto pacifico. Credevo che la chiave, a questo scopo, fosse un Gorbačëv politicamente forte e un’Unione sovietica funzionante». La Perestrojka e Gorbačëv erano già al capolinea, però. Mancavano pochi giorni al colpo di Stato.

Trent’anni dopo un altro presidente degli Stati uniti arriva a Kyiv, sfida gli allarmi antiaerei e incontra un capo di Stato ucraino che la guerra ha trasformato da attore in regista della difesa del suo Paese. L’Occidente sostiene l’indipendenza ucraina whatever it takes, direbbe Mario Draghi. L’Ucraina è diventata la nuova frontiera su cui l’Europa combatte per preservare i valori dello Stato di diritto dalla prepotenza delle autocrazie orientali. John Kennedy aveva fatto della «nuova frontiera» intellettuale e tecnologica degli anni Sessanta la cifra della sua presidenza. Per Joe Biden, a un anno dalla ripresa della guerra, la «nuova frontiera» passa da Kyiv, dove incontra Volodymyr Zelensky nella cittadella del Monastero di San Michele, in cima alla salita che parte dalla celebre Majdan Nezaležnosti, la Piazza Indipendenza in cui gli ucraini, all’inizio di tutto, hanno manifestato per la libertà, la loro e la nostra.

Questo approfondimento fa parte di una seria curata dal ricercatore indipendente Luca Lovisolo in esclusiva per CdT.ch. Per leggere la prima puntata clicca qui.

In questo articolo:
Correlati