L'intervista

USA e Svizzera? «I rapporti sono produttivi, ma si può sempre migliorare»

A tu per tu con Scott Miller, ambasciatore degli Stati Uniti in Svizzera, di passaggio in Ticino per l'iniziativa «Pop-Up Embassy»
Scott C. Miller, classe 1979, è ambasciatore degli Stati Uniti in Svizzera e nel Liechtenstein dal 2022. © CdT/Gabriele Putzu
Dimitri Loringett
02.10.2024 06:00

Già «Repubbliche sorelle», Stati Uniti e Svizzera intrattengono relazioni che si fondano sull’idea condivisa di democrazia e libertà individuali. Lo staff dell’ambasciata americana a Berna si è recato in Ticino per una tre giorni «sul terreno» durante i quali la voce della Casa Bianca in Svizzera ha voluto incontrare, oltre che imprese e istituzioni, anche i cittadini dei due Paesi. Di questa iniziativa e dei rapporti tra Svizzera e USA abbiamo parlato con l’ambasciatore.

Ambasciatore Miller, com’è andata la «Pop-Up Embassy» in Ticino?
«Alla grande, direi. L’obiettivo di questi incontri è simile a quello del mondo commerciale: individuare e soddisfare le esigenze non ancora coperte. In Ticino sono venuto con ben ventisei miei collaboratori, ho voluto assicurarmi di affrontare tutti gli aspetti delle nostre relazioni. Abbiamo avuto interazioni in ambito politico, culturale e accademico. Per esempio, all’evento consolare organizzato alla TASI (la scuola americana a Montagnola, ndr) ho avuto l’opportunità di incontrare americani e anche svizzeri. L’accoglienza è stata fenomenale e la gente era davvero grata della nostra visita. Sa, non è facilissimo raggiungere Berna dal Ticino e la maggior parte delle persone che si recano all’ambasciata lo fa solo per andare alla nostra sezione consolare. Penso che questi incontri “spontanei” siano per molti versi il modo migliore di rappresentare gli Stati Uniti. Siamo davvero fortunati che la Svizzera sia un Paese sicuro dove si possono svolgere simili attività fuori dalle nostre “fortezze”, come sono spesso le nostre ambasciate».

I cittadini svizzeri, ma non solo, che ha incontrato hanno apprezzato questo nuovo approccio diretto e «spontaneo»?
«Cerco sempre di fare cose che siano a beneficio di entrambe le parti. Nelle ambasciate statunitensi, come in quelle di molti altri Paesi, i funzionari hanno dei mandati di tre o quattro anni e quindi non hanno sempre la possibilità, o il tempo, di essere coinvolti maggiormente nella società del Paese che li ospita. I nostri contatti in Ticino hanno molto apprezzato la nostra visita, il cui scopo oltretutto andava ben al di là del cliché della classica visita turistica. Vedere come istituzioni accademiche - per esempio, Franklin University o Virginia Tech - siano presenti e prosperano in Ticino è importante. Così come è stato importante incontrare Mario Botta e visitare l'Accademia di architettura, un tesoro nazionale che rappresenta il Ticino e la Svizzera anche negli Stati Uniti».

Passiamo alle relazioni tra Svizzera e USA, un tempo note anche come «Repubbliche sorelle». Dopo tre anni passati a Berna, come vede le relazioni bilaterali tra i nostri Paesi: più forti, più deboli, stabili, con margini di miglioramento o altro?
«Le nostre rispettive storie costituzionali si intrecciano. Nei documenti più importanti tra i nostri due Paesi, riproduciamo molti degli stessi valori condivisi di democrazia e libertà individuali. Certo, sono consapevole che gli Stati Uniti non hanno sempre fatto le cose per bene, e probabilmente nemmeno la Svizzera, ma c’è un impegno a perseguire sempre, in questo sforzo, un’unione più perfetta negli USA e certamente anche in Svizzera, attraverso il processo referendario e con la democrazia diretta. Nel complesso, quindi, direi che le relazioni tra Stati Uniti e Svizzera sono produttive. Ma si può sempre migliorare? Sì. E questo significa che sarà sempre una relazione felice? Probabilmente no. Credo però che la responsabilità di un amico sia quella di mantenere l’altro ad alti livelli».

Quali sono i temi o le questioni prioritarie del suo mandato di ambasciatore a Berna?
«L’economia e il commercio. In questi tre anni ho visitato quasi 200 aziende e ho voluto assicurarmi che non ci siano barriere tra i nostri Paesi. Certo, ci saranno sempre ostacoli che qualcuno percepisce, ma in gran parte facciamo il possibile per ridurli. Devo dire che sono giunto in Svizzera alla fine della pandemia e quel contesto mi ha fatto capire molto bene l’importanza delle relazioni tra gli Stati Uniti e la Svizzera. Penso a Lonza, che ha svolto un ruolo cruciale per lo sviluppo e la diffusione del vaccino di Moderna; e penso a Hamilton, che ci ha fornito i respiratori. Questi e altri sono stati fondamentali per aiutare il mondo a uscire dalla crisi pandemica e ad andare avanti. Ma i processi di approvazione dei prodotti farmaceutici sono onerosi sia negli USA con la FDA, sia in Svizzera con Swissmedic. Una delle cose che abbiamo implementato è stato un Accordo sul reciproco riconoscimento (MRA) - firmato proprio l’anno scorso - sulle Norme di buona fabbricazione che ha fatto sì che ora la FDA riconosca le approvazioni di Swissmedic e viceversa. Questo significa, per esempio, che la FDA non deve più recarsi in Svizzera per testare e ispezionare la produzione di un farmaco già approvato da Swissmedic e, dunque, che un’azienda non dovrà più sospendere per due o tre giorni la propria produzione. Questo, tra l’altro, mi è stato confermato proprio qui in Ticino, dove una casa farmaceutica mi ha detto che “l’MRA ha già avuto un impatto e ora non dobbiamo sottoporci a un’altra ispezione”».

Provenendo dal settore privato, sono profondamente capitalista e credo che ridurre il maggior numero possibile di barriere sia sempre positivo. Gli Stati Uniti hanno solo quattordici accordi di libero scambio e proseguiamo i dialoghi commerciali con l’Unione europea e il Regno Unito

Gli scambi commerciali fra Svizzera e USA continuano a crescere e gli Stati Uniti sono diventati ormai il primo Paese per l’export svizzero. Alla luce di ciò, un Accordo di libero scambio, da tempo evocato negli ambienti economici, servirebbe ancora? 
«Provenendo dal settore privato, sono profondamente capitalista e credo che ridurre il maggior numero possibile di barriere sia sempre positivo. Gli Stati Uniti hanno solo quattordici accordi di libero scambio e proseguiamo i dialoghi commerciali con l’Unione europea e il Regno Unito. Si tratta di processi molto lenti e dipendono anche dall’importanza che gli viene attribuita dal Governo. In Svizzera ho adottato un approccio incrementale: se alla fine di un percorso a tappe si raggiunge una certa massa critica, allora si può decidere di andare fino in fondo. Ritengo che l’MRA sui prodotti farmaceutici rappresenti un passo estremamente importante, e ora stiamo lavorando su quello successivo relativo al settore medtech, per il quale siamo già in trattative preliminari con la SECO e Swissmedic. Ma guardo anche alle aziende americane che operano in Svizzera, come Hamilton o Johnson & Johnson. Anche quelle beneficerebbero di questo accordo. Il mio predecessore si è concentrato molto sull’Accordo di libero scambio e ci è andato relativamente vicino, ma questo è stato quasi il suo unico obiettivo, a scapito forse di altre politiche».

Fra gli imprenditori svizzeri cresce il timore che l’economia dell’export possa trovarsi schiacciata USA e Cina nella cosiddetta «guerra dei dazi». Si sente di rassicurarci che ciò non accadrà? 
«Questi timori sono del tutto comprensibili, e negli incontri che ho avuto con le aziende questo tema viene quasi sempre sollevato. L’osservazione che faccio sempre è che la Cina è uno dei principali partner commerciali degli Stati Uniti, come lo siamo noi per i cinesi. Quindi, non potremmo troncare questo rapporto, né vogliamo farlo. Ma, come noto, l’Amministrazione Biden si è concentrata sulla necessità di garantire l’onshoring e il friendshoring di componenti critici delle nostre catene di approvvigionamento. E credo che altri Paesi farebbero bene a fare altrettanto. Vogliamo fare affari con chi condivide i nostri stessi valori, che hanno gli stessi obiettivi in materia di diritti umani e di trasparenza, ma in maniera che sia anche reciprocamente vantaggioso».

Parliamo ora di elezioni, non quelle attuali ma più in generale: quanto sono importanti per il cittadino americano medio?
«Provengo da una formazione politica che si concentra sui valori democratici, e il mio auspicio, quindi, è che la politica sia importante per tutti. In una democrazia sana, le persone votano ed esprimono il loro parere su come il governo sta lavorando per loro. In questa fase credo che i cittadini americani si trovino davvero a un bivio riguardo alla direzione che deve prendere il Paese. Il cittadino medio, in genere, è preoccupato più per la situazione economica o del rincaro di alloggi e generi alimentari che di ciò che succede a Washington. Si preoccupa di non più riuscire a realizzare quel sogno americano a cui la classe media aspirava un tempo. Ma questi non sono problemi che si sono verificati da un giorno all’altro, sono dovuti alla politica e alle decisioni in materia di tassazione e di priorità in campo agricolo. È una questione di offerta e non necessariamente di inflazione artificiale. Quindi, penso che chiunque sia abbastanza fortunato da vincere le elezioni di novembre continuerà ovviamente a lavorare su questi aspetti, così come farà la Federal Reserve».

In conclusione, sul piano sociale quali sono le differenze, o similitudini, fra i nostri due Paesi? Ci sono cose che possono essere apprese reciprocamente l'una dall'altra?
«Una delle cose che mi piacciono molto della Svizzera e che ho studiato a lungo sono gli ecosistemi davvero sani che si sono sviluppati tra le università e le imprese, che creano un quadro di prospettiva di carriera più chiaro. Inoltre, mi piace molto il sistema dell'apprendistato. Negli Stati Uniti, per trovare un impiego bisogna andare all'università (o avere fortuna). Ma ci sono comunque molte persone che non sono sicure di voler andare all'università. Se guardo alla Svizzera, vedo che aziende e giovani sono davvero entusiasti del sistema di formazione duale che, specie per i giovani apprendisti, consente di imparare un mestiere e al contempo di guadagnare qualcosa. Quando si parla con questi ragazzi, sono tra i più pronti e interattivi. Questi giovani adulti sono fenomenali. Penso quindi che il sistema di apprendistato sia davvero da replicare. Non succede da un giorno all'altro e negli Stati Uniti c'è uno stigma che riguarda l'apprendistato e il non andare all'università.  Per quanto riguarda le cose che sento dire dalle aziende svizzere su ciò che vorrebbero imparare di più dagli Stati Uniti, c'è l'assunzione di rischi. Ovviamente la Svizzera è altamente innovativa e qualificata. Ma negli Stati Uniti c'è una mentalità secondo cui si può rischiare senza temere di affondare, se si fallisce, per il resto della vita. Ma credo che la pietra angolare del rapporto fra Svizzera e Stati Uniti sia la condivisione di valori come la democrazia, i diritti umani e le libertà individuali, che ci rendono molto simili sotto molti punti di vista».

«Il mercato USA resta sempre attrattivo per le PMI svizzere»

Come noto, il mercato unico europeo rappresenta di gran lunga il principale sbocco commerciale per l’export delle imprese svizzere, ma quello statunitense - nel quale la Svizzera è presente da oltre un secolo - è in forte ascesa. Il commercio estero con gli Stati Uniti hanno infatti raggiunto una quota di quasi il 18% che supera quella della Germania (al 15,6%), facendo sì che gli USA siano ormai il primo partner commerciale della Svizzera.

Tuttavia, nonostante il contesto economico americano sia molto favorevole all’imprenditorialità svizzera, le prospettive congiunturali di medio termine sono poco chiare, a prescindere da quello che sarà l’esito delle imminenti elezioni presidenziali statunitensi. D’altra parte, però, sempre più imprese svizzere guardano all’America, che offre comunque ottime condizioni d’accesso al mercato e, rispetto all’UE, anche prospettive di crescita migliori.

«Il mercato nordamericano è sempre stato attrattivo, ma lo è diventato ancora di più a partire dall’inizio degli anni Duemila, da quando cioè si registra una continua crescita dell’export svizzero verso gli USA», afferma al CdT Annina Bosshard, consulente per gli USA e il Canada presso Switzerland Global Enterprise (S-GE), intervenuta martedì scorso all’«Evento Paese-USA» organizzato a Lugano in collaborazione con al Camera di commercio del Canton Ticino (Cc-Ti). Un dato che dimostra questo interesse è rappresentato dagli investimenti diretti svizzeri all’estero, che negli USA raggiungono ormai il 20% del totale. «Fra le PMI c’è un crescente interesse anche a stabilire delle filiali negli Stati Uniti», aggiunge la specialista di S-GE.

All’evento praticamente «sold-out» hanno partecipato soprattutto le PMI ticinesi interessate a trovare risposte alle legittime preoccupazioni sia per il quadro istituzionale statunitense, sul quale pesano i risultati elettorali di novembre, sia per le prospettive congiunturali che, come detto, non sono ancora chiarissime. Ancora Bosshard: «Al momento la situazione è un tipico “50-50”, non sappiamo che cosa accadrà alla Casa Bianca o al Congresso, ma dai partecipanti non ho avvertito sensi di inquietudine o di panico, piuttosto atteggiamenti “attendisti” e ragionamenti di scenario», conclude.