Vajont, quando la natura si ribellò all’uomo

La maggior parte della gente di Longarone stava chiusa in casa, la sera del 9 ottobre 1963. Molti uomini si erano radunati nei bar, dove la televisione, ancora rigorosamente targata RAI e in bianco e nero, dava la partita di Coppa dei campioni Real Madrid-Glasgow Rangers.
Il cielo per tutta la giornata era stato terso, di un azzurro intenso. Quella notte a Longarone, d’improvviso si alzò un forte vento e la gente, che si affacciava alle finestre per capire cosa stava succedendo, guardando dall’altra parte della valle, oltre il Piave su verso la diga del Vajont, vedeva bagliori simili a quelli disegnati dai fulmini nel corso dei temporali estivi.
Ma quella sera non c’era nessun temporale in arrivo. Stava invece per consumarsi una delle più grandi tragedie della storia d’Italia. La natura si stava ribellando all’uomo, il bacino artificiale del Vajont, costruito dietro una diga che in quel momento era la più alta del mondo, un capolavoro dell’ingegneria umana messo però nel posto sbagliato, stava per essere invaso da una frana colossale staccatasi dal monte Toc. Scrisse Dino Buzzati, allora inviato del Corriere della Sera: «Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi». L’acqua sollevata dalla frana superò lo sbarramento e scese a velocità forsennata lungo la stretta valle sottostante, investendo la parte più abitata di Longarone e portandosi via poco meno di duemila persone.

Un progetto tra sogno e temerarietà
L’Italia di quegli anni si era appena lasciata alle spalle il dopoguerra, fatto di silenzi, sacrificio e anche di un po’ di vergogna. Era un’Italia che voleva fortemente crescere e non si poneva limiti: la diga del Vajont sarebbe stata la più alta del mondo coi suoi 263 metri d’altezza, un capolavoro d’ingegneria da presentare come biglietto da visita, che sarebbe servito anche nell’ottica di ottenere gli appalti per la costruzione della grande diga di Assuan, in Egitto. La diga del Vajont prende corpo come parte integrante di un sistema di bacini idroelettrici del Cadore che devono soddisfare il crescente bisogno di energia, in particolare nella zona industriale veneta di Marghera, in piena espansione.
Del Vajont si comincia a parlare nel 1928, ma l’approvazione del progetto, firmato dall’ingegner Carlo Semenza (dirà: «è la realizzazione di un sogno»), avviene nel 1943, grazie ad una votazione irregolare nel Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. I lavori, senza le necessarie autorizzazioni, iniziano nel 1957, lo stesso anno in cui la SADE, committente dell’opera (Società adriatica di elettricità, più tardi assorbita dalla Montedison), si accorge che alzando di 60 metri la diga originariamente prevista di 200 metri, può triplicare la capacità del bacino. L’idea di Semenza, sottoposta all’esame del geologo Giorgio Dal Piaz, sin dall’inizio consulente dell’opera, ottiene questa riposta: «Se il primo progetto mi sembrava audace, la variante mi fa tremare le vene e i polsi». Nonostante tutto però, si procede, anche se il geologo austriaco Leopold Müller, nel frattempo subentrato a Dal Piaz, informa la società di aver individuato una frana con un fronte di due chilometri.
Nel 1959 la monumentale diga è conclusa e da lì in poi cominciano le prove d’invaso, che avranno un effetto destabilizzante per le pendici del monte Toc. Il 9 febbraio 1960, in concomitanza con la prima prova d’invaso, una frana finisce nel bacino. Nel mese di giugno, due geologi tra cui Franco Semenza, figlio del progettista, avvertono del rischio che l’acqua dell’invaso, scavando ai fianchi la montagna, possa rimettere in movimento la frana del Vajont. Si decide allora di costruire una galleria di sorpasso (by-pass) in grado di collegare i due bacini che avrebbero potuto formarsi nel caso fosse caduta la frana.
Nel 1961, il geologo Müller consiglia di abbandonare il progetto, dato che la frana che potrebbe cadere secondo i suoi calcoli avrebbe una dimensione di 200 milioni di mc. Si eseguono le prove con un modellino, ma si tien conto delle conseguenze della caduta di soli 50 milioni di mc. I lavori procedono e nel frattempo si profila il passaggio di tutte le infrastrutture idroelettriche al neocostituito Enel. Evidentemente, cedere un’infrastruttura che funziona rende più che cederne una dal funzionamento incerto, sicchè si fa di tutto per arrivare al collaudo dell’opera e si accelera l’invaso, nonostante si veda persino ad occhio il movimento della frana del monte Toc. A nulla serve l’allarme dato dalle autorità dei comuni interessati e dalla popolazione: il disastro annunciato si compie il 9 ottobre 1963. Sarà seguito da un lunghissimo processo, da un suicidio di uno dei responsabili della SADE e da polemiche interminabili. Tre dirigenti della SADE vengono condannati, la Montedison corrisponderà un indennizzo di 77 miliardi di vecchie lire a Longarone. La sentenza definitiva è del 1997.
Alle 22.39 l’Apocalisse
La frana che si staccò dal monte Toc la sera del 9 ottobre 1963 alle 22.39 precipitando nel bacino sottostante era di dimensioni gigantesche. Il lago fu invaso da 260 milioni di metri cubi di rocce e detriti, staccatisi dalla costa per una lunghezza di poco superiore ai due chilometri ed un’altezza media di 150 metri. Nel bacino affondarono campi coltivati, abitazioni e rifugi, boschi, il tutto ad una velocità di poco inferiore ai 100 chilometri orari.
I bagliori che la gente di Longarone potè vedere quella sera prima di essere spazzata via dalla forza del vento e dall’impetuosità dell’acqua, erano la conseguenza del corto-circuito che si era prodotto mentre saltavano gli elettrodotti austriaci. Cadendo nel lago, l’enorme frana provocò due ondate per un totale di 50 milioni di metri cubi d’acqua: una si diresse verso est, risparmiando per pochi metri il comune di Erto, ma non diverse sue frazioni; la seconda si alzò per 200 metri andando a lambire il piccolo villaggio di Casso, abbarbicato alla montagna, e scavalcò poi lo sbarramento artificiale, incuneandosi nella valle sottostante dopo aver portato via il cantiere degli operai che stavano eseguendo, ad invaso già ultimato, lavori di rifinitura.

Era questa l’ondata che si portava appresso la distruzione di Longarone: la morte per 1452 persone del paese sopraggiunse in poco più di quattro minuti, il tempo intercorso tra il distacco della frana sul monte Toc e l’arrivo della piena in paese. Le famiglie che piansero almeno un morto furono 508, quelle completamente scomparse 305. In totale, il bilancio del disastro parla di 1910 vittime.
Quella del Vajont però era una sorta di tragedia annunciata. Le problematiche relative allo scivolamento di una parte del monte Toc sul bacino della diga erano note da tempo e nel 1960 alcuni controlli rivelarono la presenza di fessure importanti, accentuatesi col tempo.
La popolazione di Erto e di Longarone espresse a più riprese i propri dubbi sull’opportunità di realizzare il bacino artificiale del Vajont. Perizie e controperizie si susseguirono, fino a quando un esperto geologo di allora, non negando la possibilità che una frana finisse nel lago, eseguì una simulazione dell’evento. Ne uscì rassicurando la popolazione sul fatto che, abbassando il livello dell’acqua nel bacino, nulla sarebbe successo anche in caso di un franamento. Ed in effetti, nonostante tutto, il manufatto di cemento, alle cui spalle oggi sorgono colline di detriti che hanno riempito la valle, è ancora in piedi nonostante l’accaduto.
Il problema è che la simulazione effettuata prese in considerazione la caduta di una frana di 50 milioni di metri cubi, mentre in realtà dalle pendici del monte Toc se n’è staccata una di proporzioni cinque volte maggiori.
Ai soccorritori che subito si presentarono a Longarone, apparve uno scenario apocalittico e molte vittime, trascinate a valle per chilometri e chilometri dalla corrente del Piave, non sono mai state recuperate.
