La testimonianza

Vanni Bianconi: «Se siamo riusciti a tornare a casa, è solo merito della Turchia»

Il ticinese, membro della Global Sumud Flotilla, ripercorre quanto vissuto negli scorsi giorni: dall'abbordaggio delle forze armate israeliane alla sua nave, alla «crudele detenzione» nel deserto del Negev, fino al rientro in Svizzera: «Da Berna non abbiamo ricevuto alcun supporto»
©PIERRE ALBOUY
Federica Serrao
06.10.2025 20:45

Per Vanni Bianconi, il sogno è svanito intorno alle cinque del mattino, ora locale. Nel momento in cui la Wahoo, la nave sulla quale viaggiava il ticinese, parte della missione umanitaria della Global Sumud Flotilla, è stata abbordata dalle forze armate israeliane. «Siamo stati bloccati quasi all'alba» ci racconta il 48.enne, mentre un treno lo sta riportando verso il Ticino. La loro barca, nella notte tra il 1. e il 2 ottobre, era tra quelle più vicine alla meta, malgrado lo spiegamento di forze israeliane, una ventina di imbarcazioni militari. «In un primo momento siamo riusciti a sfuggire a queste navi. Ci siamo diretti verso Gaza da nord, sperando di riuscire a continuare l'aggiramento. E pensavamo di esserci riusciti, finché in pochi minuti non ci ha raggiunto la nave madre delle forze armate israeliane. Una barca gigantesca e molto rapida, che è riuscita a fermarci».

Come reso noto già quella notte, le forze militari israeliane hanno attaccato la Wahoo e le altre imbarcazioni della Global Sumud Flotilla con cannoni ad acqua. «Quando la nave madre ci ha attaccati la prima volta, separandoci dal resto della flottiglia, ha cercato di fare sì che andassimo a sbattere contro la sua mole. Ci siamo trovati i puntini verdi dei fucili dei cecchini puntati addosso». Ma è stato il secondo attacco, con i cannoni ad acqua, a essere decisivo. «Ci hanno inondato. Pensavamo di essere sfuggiti di nuovo, ma poi sono arrivate delle navi più piccole. Imbarcazioni buie, quasi impercettibili nell'oscurità del mare, con la poca luce del crepuscolo. «Si sono avvicinati, ci hanno girato attorno per tenerci fermi, fino a quando non è arrivato lo zodiac con a bordo i soldati. In quel momento si intravedeva il chiarore dell'alba, ma non c'era ancora il sole. Eravamo bagnati fradici, stretti gli uni agli altri con i giubbotti di salvataggio e le mani in alto, in vista in segno di resa». 

Mi hanno portato in un cortile e mi hanno messo in ginocchio, come centinaia di altre persone che erano già lì, senza poter alzare la testa. Ci hanno lasciato in quella posizione per un paio d'ore, sotto il sole cocente, senza acqua
Vanni Bianconi

Le prime ore

In un primo momento, i soldati israeliani – ricorda Vanni Bianconi – hanno promesso agli attivisti di non far loro del male, se non avessero reagito. «Sono saliti a bordo, ci hanno ammanettati, ci hanno messi sottocoperta e hanno portato via la nostra barca, rovinando il motore, fino al porto di Ashdod. Tanto se la sono tenuta: la nostra Wahoo, la più punk di tutta la flottiglia». Il viaggio è durato parecchio, ma i soldati saliti sulla barca «erano giovani e non particolarmente aggressivi». Appena Vanni e i suoi compagni hanno messo piede a terra, però, tutto è cambiato.

«Io, che ero il responsabile della mia barca, sono stato il primo a scendere. In due mi hanno bloccato le braccia dietro la schiena, rigirandomele dolorosamente e mi hanno portato di peso fino a un cortile, dove mi hanno messo in ginocchio, come centinaia di altre persone che erano già lì, senza poter alzare la testa. Ci hanno lasciato in quella posizione per un paio d'ore, sotto il sole cocente, senza acqua. Capitava che ci tirassero schiaffi per farci abbassare la testa e lo sguardo, chissà se si vergognavano? Solo di tanto in tanto ci era consentito cambiare posizione per sgranchire un po' le gambe, prima che ci gridassero di tornare in ginocchio».

Usano punizioni tra il puerile e il crudele. Non sai mai se sarà qualcosa di efficace o di doloroso, di umiliante o patetico
Vanni Bianconi

Poi, racconta Vanni Bianconi, è arrivato Itamar Ben-Gvir, leader del partito d'ultradestra Otzma Yehudit e ministro della Sicurezza nazionale. «Ci ha chiamati "terroristi", ma anche "turisti", due versioni della propaganda israeliana difficili da conciliare. Poi hanno filmato una delle nostre navi sostenendo che non trasportassimo aiuti umanitari». Il ticinese ricorda anche le punizioni inferte ad altri attivisti, come Greta Thunberg. «L'hanno costretta a inginocchiarsi sotto la bandiera israeliana. Usano punizioni tra il puerile e il crudele. Non sai mai se sarà qualcosa di efficace o di doloroso, di umiliante o patetico». 

Per altre due ore, Vanni Bianconi è rimasto, insieme ai suoi compagni, in ginocchio. «Ci hanno fatto alzare dopo diverso tempo per portarci di fronte a un'enorme saracinesca al centro di controllo del porto. Anche lì siamo rimasti per due ore in ginocchio, almeno il sole era calato. Non potevamo andare in bagno, ci insultavano e ci deridevano, cercavano di umiliarci, soprattutto le persone queer o chi indossava abiti con scritte particolari. Si respirava violenza e ignoranza bestiale».

Eravamo sudati, ammanettati, sotto il sole cocente, senza acqua e senza sapere dove fossimo diretti. O meglio: sapevamo di star andando in prigione, solo non sapevamo dove
Vanni Bianconi

Nel deserto del Negev

Al porto, gli attivisti della Global Sumud Flotilla hanno almeno incontrato gli avvocati palestinesi, l'unica assistenza legale a cui hanno avuto accesso. «Ci hanno spiegato che documenti avremmo dovuto firmare, ma non sappiamo nemmeno se avessero rilevanza». Quindi, sono stati caricati su degli autobus militari, «di metallo, apoteosi del design della scomodità». Un'altra forma di tortura, sottolinea il ticinese, e di pressione psicologica e fisica. «Eravamo sudati, ammanettati, con un caldo pazzesco e senza acqua per circa tre ore, poi, quando si sono messi in moto, è stata accesa l'aria condizionata al massimo. Eravamo fradici di sudore, e all'improvviso si congelava». 

Il viaggio è continuato, in queste condizioni, fino alla prigione nel deserto del Negev. «In un primo momento ci hanno chiuso in celle esterne, senza sapere che logica ci fosse nella divisone dei gruppi. Ci hanno sottoposto a un finto controllo medico, in cui ci hanno fatto spogliare e perquisiti con dei sensori. Quindi, ci hanno dato i vestiti della prigione, divertendosi a dare le taglie opposte alla statura».

In situazioni d'emergenza dovevamo picchiare, tutti insieme, sulle porte metalliche della cella, gridando e chiamando i dottori
Vanni Bianconi

«Quando ci hanno perquisito ci hanno tolto tutto, incluse le medicine per le malattie croniche e letali. A Fabrizio Ceppi, l'altro ticinese che era con me, hanno portato via l'insulina, ha corso un grossissimo rischio». Chi, come lui, aveva bisogno dei farmaci per un attacco d'asma o per pressione alta, si è visto più volte in pericolo. «In situazioni d'emergenza dovevamo picchiare, tutti insieme, sulle porte metalliche della cella, gridando e chiamando i dottori». E non solo. «Abbiamo chiesto l'acqua per ore, prima di averla. Quella che ci hanno detto di bere, però, era di cisterna. Qualcuno ha avuto problemi intestinali, ma il rischio peggiore è che bevendo quest'acqua potremo contrarre malattie ancor più gravi, come l'epatite A». Non meglio il cibo concesso ai prigionieri anche se, date le condizioni, non importava un granché: «Facevamo lo sciopero della fame». 

Nessun supporto da Berna

Dopo una trentina d'ore prigionieri nel deserto, gli elvetici hanno ricevuto una visita del console svizzero. «Era molto spaventato e lo hanno fatto andare via subito. Non abbiamo neanche potuto parlarci. E questa è stata l'unica assistenza che ci ha fornito la Svizzera in quel momento», sottolinea Vanni Bianconi. 

Dopo un paio di giorni di prigione, il ticinese è stato tra i primi svizzeri a lasciare il deserto del Negev. «Senza alcuna spiegazione ci hanno trasferito di nuovo su quegli autobus. Siamo andati verso sud, senza sapere dove fossimo diretti». La meta era l'estremo meridionale di Israele, ai confini con Giordania ed Egitto. «Lì ci hanno condotto in uno stranissimo aeroporto, quello di Eilat-Ramon, in teoria nuovo, ma abbandonato». È stato a quel punto, però, che Vanni e i suoi compagni svizzeri hanno visto di nuovo la luce. Ma solo grazie alla Turchia, che si è occupata di aiutarli a lasciare Israele. «Ci hanno fatto salire su un aereo, trattandoci benissimo e fornendoci nuovi vestiti. Una volta arrivati in Turchia, siamo stati accolti come eroi. Ci ha fatto bene, ma con gli eroi non abbiamo niente a che fare. L'avremmo avuto se fossimo arrivati a Gaza: gli eroi sono gli abitanti della Striscia che malgrado le loro sofferenze ci hanno mandato messaggi di incoraggiamento e affetto durante tutto il viaggio».

Se ieri siamo riusciti a volare via da Istanbul, è solo grazie alla Turchia
Vanni Bianconi

Ad attendere Vanni e i compagni elvetici, a Istanbul, c'era un altro console elvetico. «Anche in quel caso, la sua presenza si è rivelata inutile. Sono stato io, personalmente, a incontrare una parlamentare turca, che ha sottolineato come il suo Paese fosse "dalla nostra parte". Insieme abbiamo parlato con Turkish Airlines, che ha offerto i biglietti aerei per i dieci cittadini svizzeri e pure un hotel a cinque stelle per la notte. Se ieri siamo riusciti a volare via da Istanbul, è solo grazie alla Turchia. Più eroico di noi, per me, è l'operatore sanitario turco che ha chiesto se poteva darci delle sigarette, dei soldi».

Vanni Bianconi non usa mezzi termini: «Non so che cosa sarebbe successo senza l'aiuto della Turchia. Avevamo con noi solo il passaporto e nient'altro. L'assistenza consolare in Svizzera ci ha detto che non potevano fornirci alcun sostegno, se non il telefono per chiamare casa, se avessimo saputo i numeri a memoria. Solo dopo che ho trovato voli e hotel, Berna ci ha prestato 40 franchi, ma con una sovrattassa, il che significa che dovremo restituire 60 franchi». 

C'è ancora però molta gente, da tutto il mondo, detenuta in quelle condizioni, in maniera totalmente ingiusta. E i governi, spesso, fanno davvero il minimo del minimo indispensabile
Vanni Bianconi

Chi è ancora intrappolato

Il rientro a casa, va da sé, è stato altamente emozionante. Ma altrettanto difficile. Da un lato, l'accoglienza riservata a Vanni Bianconi e ai suoi compagni, tra cui Fabrizio Ceppi, a Ginevra, è stata commovente. Ma dall'altra parte, il ticinese non riesce ancora a pensare a quanto vissuto in questi giorni: tutti i pensieri sono volti ai compagni che si trovano ancora in cella. «Riesco a pensare solo a loro, e non riesco a parlare di loro», ci dice Vanni con voce rotta dall'emozione. «Non mi darò pace finché non saranno tutti usciti di prigione».

Al momento, tra uno e due terzi delle persone che hanno preso parte alla Global Sumud Flotilla si trovano ancora in carcere. «I nostri aguzzini ci minacciavano, ci dicevano che se non avessimo firmato quello che ci chiedevano saremmo rimasti in prigione per un anno. In quella prigione si respira rabbia cieca e confusione totale. La gente rischia di morire perché non vengono fornite acqua e medicine, nemmeno a gente che fa sciopero della fame e che sta facendo solo una cosa giusta, protetta dal diritto internazionale e la paura è di rimanere in carcere per un lungo periodo solo perché chi lo gestisce si trova in grosse difficoltà anche solo a stilare una lista di nomi».

Nelle prossime ore, alcuni prigionieri, tra cui francesi, olandesi e altre nazionalità, dovrebbero riuscire a tornare a casa. «C'è ancora però molta gente, da tutto il mondo, detenuta in quelle condizioni senza alcun capo d'accusa e in piena violazione dei diritti dell'uomo e degli accordi internazionali. E i governi, tra cui quello svizzero, fanno davvero il minimo del minimo indispensabile».