Vent’anni senza Jugoslavia

La fine della Jugoslavia ha tante date simboliche, ma una è più simbolica di tutte le altre. Perché il 4 febbraio del 2003, esattamente 20 anni fa, la Jugoslavia scomparì proprio come nome: la Repubblica Federale di Jugoslavia venne infatti ribattezzata Unione Statale di Serbia e Montenegro, chiudendo per sempre un’epoca. E aprendone un’altra, quella della cosiddetta Jugonostalgia, un movimento culturale, ma soprattutto un sentimento, che di quell’esperienza ricorda il buono.
Le tappe della fine
La morte della Jugoslavia comincia nel 1980 con la morte di Tito, cioè dell’uomo che di fatto l’aveva creata dopo la Seconda Guerra Mondiale, e che nel 1974 ha anche cercato di rifondarla, aggiungendo alle sei repubbliche fondatrici (Serbia, Croazia, Slovenia, Bosnia, Macedonia e Montenegro) l’istituzione delle province autonome di Kosovo e Vojvodina. Del 1991 è la secessione della Slovenia, tutto sommato soft, seguita da quella della Croazia, che genera invece una reazione militare da parte di Belgrado e una guerra che dura quattro anni. Sempre del 1991 è l’indipendenza della Macedonia, senza guerre. L’anno dopo in Bosnia, in seguito al referendum per l’indipendenza voluta dalla popolazione bognacca e da quella croata, si materializza la catastrofe, con intervento militare di Belgrado ma soprattutto una guerra civile, con massacri a carattere etnico e un tutti contro tutti che termina, almeno ufficialmente, con gli accordi di Dayton del 1995. Nel 1998 è il turno del Kosovo, dove gli scontri fra maggioranza albanese e minoranza serba portano a una situazione tipo Bosnia: altra guerra terrificante, che coinvolge anche la popolazione civile, ma in questo caso dura un anno e finisce per l’intervento dell’ONU che trasforma il Kosovo in un protettorato. Diventerà indipendente nel 2008, anche se molti Stati non lo riconosceranno come tale. Insomma, il 4 febbraio 2003 certifica la fine di un’epoca che era già finita, fra l’altro tre anni dopo andrà per la sua strada anche il Montenegro.
L’Aquila di Shaqiri
La fine delle guerre e la formazione di Stati abbastanza omogenei, tranne la Bosnia, dal punto di vista etnico, non ha fatto terminare i nazionalismi. Che rimangono molto forti anche nelle comunità emigrate in tutto il mondo, basti pensare al modo in cui i serbi residenti in Australia sostengono Novak Djokovic o alle polemiche per ogni gesto simbolico. Al Mondiale 2018 proprio la Svizzera fu al centro delle polemiche, vista l’esultanza di Xherdan Shaqiri e Granit Xhaka (e per la verità anche di Stephen Lichsteiner) dopo la vittoria per 2-1 sulla Serbia, facendo il gesto dell’aquila. Il riferimento è alla bandiera albanese, che ha appunto un’aquila nera a due teste su sfondo rosso. Le famiglie di Shaqiri e Xhaka sono kosovare (Shaqiri è proprio nato in Kosovo, fra l’altro) di etnia albanese, ma nessuno dei due si può definire esattamente un profugo di guerra: gli Xhaka sono arrivati in Svizzera all’inizio degli anni Novanta, gli Shaqiri nel 1995. I nazionalismi hanno sempre trovato nello sport la massima esposizione: esagerando, ma non troppo, qualcuno in Croazia afferma che la Jugoslavia sia finita con la famosa ginocchiata di Zvonimir Boban al poliziotto, in Dinamo Zagabria-Stella Rossa Belgrado, altri con la bandiera croata strappata dal serbo Vlade Divacdurante i festeggiamenti per il Mondiale di basket del ’90, episodio che portò alla rottura con Drazen Petrovic, la stella croata della squadra. Tutto questo per dire che la fine delle guerre e della stessa Jugoslavia non ha fatto terminare rivendicazioni nazionalistiche, né cancellato la memoria di crimini subìti (quelli fatti si ricordano meno).
Che cosa dicono i sondaggi
Negli ultimi anni molto è cambiato, più in chi vive nei Paesi della ex Jugoslavia che in chi è emigrato all’estero e idealizza la patria. Un sondaggio dell’estate scorsa condotto in Serbia ha dato un risultato quasi incredibile: l‘81% degli intervistati ha infatti affermato che la divisione della Jugoslavia abbia avuto più effetti negativi che positivi sulla vita della popolazione. Ancora più alta la percentuale fra i giovani, che quell’epoca non l’hanno vissuta se non per sentito dire. In Bosnia questa percentuale di nostalgici è del 77%, in Slovenia del 45% e in Croazia di poco inferiore. La percentuale più bassa di cultori della Jugoslavia è in Kosovo: meno del 10%. Sono numeri importanti, che mettono insieme nostalgici veri e giovani che hanno un approccio critico nei confronti del nazionalismo, ma questo non toglie che la realtà sia quella di un grande Paese che si è frantumato in 7 Paesi di medie o piccole dimensioni: 6,8 milioni di abitanti la Serbia, 3,9 la Croazia, 3,2 la Bosnia, 2,1 la Slovenia, 2 la Macedonia del Nord, 1,9 il Kosovo, 620.000 il Montenegro.
La Jugonostalgia
I numeri valgono però sempre meno dei sentimenti e la Jugonostalgia non si può spiegare soltanto con i sondaggi. Perché si tratta di un fenomeno in gran parte irrazionale, vista la relativa pace di adesso che può essere paragonata a quella dei decenni di Tito al potere. È anche un movimento culturale, con i suoi registi di riferimento (su tutti il serbo Srdan Dragojevic), la sua musica (Goran Bregovic), i suoi musei ma anche il suo merchandising trash (le classiche tazze con l’effigie di Tito), i suoi libri (come quello di Miljenko Jergovic), il suo milione di siti che esaltano le glorie del passato, a livello di cultura pop ma anche politico, visto il ruolo internazionale che aveva la Jugoslavia come leader dei cosiddetti Paesi non allineati. Come tutte le forme di nostalgia, spesso riguarda soltanto gli anni in cui eravamo giovani. Questo non toglie che la Jugonostalgia stia in questi ultimi tempi veicolando una sua interpretazione delle guerre balcaniche: guerre condotte da minoranze molto motivate, quando la maggioranza della popolazione non si trovava poi così male in Jugoslavia. Certo dopo tanti morti e tanti orrori anche soltanto porre la domanda genera reazioni scomposte.