L'intervista

«Vige la pretesa di negoziare paci e guerre davanti agli schermi»

Marco Santoro, sociologo dell’Università di Bologna, spiega perché i conflitti armati sono diventati show e avverte: «L’unica via d’uscita è documentarsi»
© AP/Efrem Lukatsky
Dario Campione
25.08.2025 06:00

Nella società della comunicazione, la guerra è anche spettacolo. È possibile che lo diventi anche la pace? Marco Santoro, ordinario di Sociologia del giornalismo all’Università di Bologna, assieme alla collega Anna Maria Lorusso ha curato pochi mesi fa un volume (pubblicato da Donzelli) intitolato ShoWar. La guerra in Ucraina come spettacolo. «La guerra - scrivono Santoro e Lorusso - vive di schermi, sempre. Ogni guerra è anche, per alcuni innanzi tutto, guerra di segni, di apparizioni e invisibilizzazioni (pensiamo al dispositivo visivo della trincea), di simulacri con cui si cerca di ingannare, attirare, confondere il nemico». La guerra si combatte sul campo ma pure (e molto) sui media. È un gioco di specchi, che fuori dai canali della comunicazione mantiene purtroppo intatta la propria ferocia. La domanda è: oltre la guerra, è uno spettacolo anche la pace? Summit, incontri, conferenze stampa, sono davvero funzionali alla ricerca di un’intesa o servono a promuovere gli attori sulla scena? «In questo momento - dice Marco Santoro al CdT - l’unico show che può interessare media e pubblici probabilmente è la pace, dato che la guerra in quanto tale, quella sul fronte e che uccide, ha un po’ esaurito il suo potenziale spettacolare, anche considerando la sua bassa intensità».

Il punto è capire se lo show della pace abbia, o no, un impatto sull’opinione pubblica. «Dipende da quale dimensione consideriamo e cosa si intende per impatto - continua Santoro - Se pensiamo agli effetti, direi che ne produce uno soprattutto per Putin: prendere tempo, con la guerra che intanto continua e il “gioco della guerra” - espressione forse cinica, ma non eccessiva per indicare le dinamiche che la caratterizzano come fenomeno sociale, ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina s’intende - che può giocarsi ora su un altro tavolo oltre quello del fronte». Donald Trump, in questo momento, sembra aver fatto un passo indietro. Non vuole più far parte dello show della pace, dentro il quale non è vincente. «Trump ragiona e agisce nello spazio politico con la logica dell’evento e del personaggio carismatico, dell’eroe, dell’uomo del destino - spiega ancora Marco Santoro - Assai meno Putin, che da ex agente dei servizi e da homo sovieticus tende piuttosto alla discrezione, se non alla segretezza, e certo anche al doppio gioco. Anche lui, però, non è certo immune alla logica della costruzione del personaggio, del grande uomo, zar protettore di tutte le Russie o “denazificatore” che sia».

Come «difendersi»

Resta da capire in che modo i cittadini-spettatori possano capire il senso dello ShoWar e prendere le eventuali, necessarie, contromisure. «Credo che questo sia il vero punto - ammette il sociologo dell’Università bolognese - Intanto, tra i cittadini-spettatori metto anche i giornalisti, i quali hanno un ruolo cruciale in questo show. In buona parte sono loro a metterlo in scena, più o meno consapevolmente, ma con effetti importanti, anzi decisivi, nella sfera pubblica. Mi chiedo quanto il giornalismo, perlomeno quello italiano, si renda conto della delicatezza del proprio ruolo: non solo di comunicazione, ma ancora prima di gatekeeping (trattenere informazioni, ndr), nella selezione delle voci di autorità e di expertise a cui chiede, in scena naturalmente, di esprimere giudizi e offrire interpretazioni. Dalle mie ricerche emerge, sia tra i giornalisti sia tra gli invitati ai loro programmi e sulle pagine dei giornali o siti, un profilo piuttosto diffuso di incompetenza o, quel che è peggio, di pseudocompetenza. Si convocano presunti esperti, anche professori, in prima serata meno per le loro comprovate e riconosciute (dalle comunità scientifiche) competenze analitiche e specialistiche, molto più per la loro presenza scenica e, soprattutto, per la capacità di creare la notizia, ovvero polarizzare l’opinione pubblica. Ma la logica dello show ha contaminato anche gli spazi accademici e quelli, ad essi legati a doppio filo, editoriali; e non sembra ci siano molte vie d’uscita per lo spettatore comune, se non documentarsi il più possibile cercando di uscire dalle bolle in cui spesso si finisce tra social media e media tradizionali».

Siamo di fronte, insomma, a «un gioco di parti contrapposte, che si fanno la guerra nei salotti televisivi così come nelle rassegne stampa - conclude Marco Santoro - Gioco che evidentemente piace un po’ a tutti. L’homo ludens è una parte costitutiva della natura umana, come ha dimostrato tempo fa lo storico olandese Johan Huizinga. La guerra ne è una manifestazione piuttosto duratura. E la diplomazia non è da meno, specie nelle cosiddette società democratiche, dove vige la pretesa (o almeno l’illusione) di negoziare paci e guerre davanti agli schermi».