Il personaggio

Viktor Orbán, la spina nel fianco dell’Occidente

Xenofobo, filo-russo e perennemente in lite con Bruxelles: ecco il primo ministro dell’Ungheria
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Marcello Pelizzari
28.07.2022 12:00

Gli ungheresi non sono una razza mista. E non vogliono diventarlo. È il succo, brutale, del discorso tenuto sabato scorso da Viktor Orbán, primo ministro di un’Ungheria sempre più battagliera e, di riflesso, isolata all’interno dell’Unione Europea. 

Lo stesso uomo forte di Budapest, beh, deve fare i conti con critiche e spaccature – diciamo così – a chilometro zero. Zsuzsa Hegedüs, consigliere di lungo corso di Orbán, si è dimessa. Facendo rumore, parecchio rumore. «Lei, primo ministro, trasforma le sue posizioni anti-migranti e anti-europeiste in un discorso nazista degno di Goebbels», le sue parole. Quindi l’amara constatazione: quello travolto dai venti di guerra e dalle lotte intestine con Bruxelles non è il «Viktor che mi assunse nel 2002». 

La Grande Sostituzione

Se è vero che le provocazioni del primo ministro magiaro hanno raggiunto un livello mai visto prima, pensiamo all’uscita inquietante sulle camere a gas, le posizioni di Orbán sono note da tempo. Ad esempio, è un fermo sostenitore della Grande Sostituzione, la teoria complottista – citiamo l’enciclopedia Treccani – secondo cui l’immigrazione di massa in Europa non è frutto di un moto spontaneo, ma risponde a un deliberato piano di sostituzione delle popolazioni europee bianche e di fede cristiana con quelle provenienti da altri continenti, prevalentemente di fede musulmana. Ora, ha aggiunto un tassello: la diffidenza verso l’Ucraina, complice una forte, fortissima simpatia verso la Russia e Vladimir Putin in particolare. Una simpatia rafforzata da accordi economici e grandi intese. 

Il fatto che Orbán abbia detto quello che ha detto nella Transilvania romena, una regione dalla forte presenza magiara, non è casuale. Il primo ministro ungherese vi tiene discorsi programmatici da parecchio tempo, ogni estate. Nel 2014, ad esempio, introdusse il concetto di illiberismo. A questo giro, ha attaccato a muso duro la strategia comune europea nei confronti dell’Ucraina. Una strategia sbagliata, a suo dire, poiché poggia su basi poco solide. Come la convinzione che Kiev vincerà la guerra o che le sanzioni indeboliscano Mosca. Orbán, nello specifico, ha usato la metafora di una macchina che viaggia con le gomme (quasi) a terra. Ahia. Di qui, ancora, la necessità di adottare un nuovo modello. Che cerchi una sorta di «via di mezzo» fra i due Paesi. 

Il tutto, ovviamente, riprendendo e rilanciando la narrazione del Cremlino, secondo cui la Russia è stata provocata dalla NATO e dall’Occidente. 

Sempre di traverso

Orbán, e questo forse è il lato più complicato della vicenda, non si dissocia dall’UE soltanto a parole, sebbene sia abbastanza furbo per capire che è meglio alzare la voce dall’interno che dall’esterno. Budapest, per dire, si rifiuta di inviare armi a Kiev e, di nuovo, di permetterne il transito attraverso l’Ungheria. 

E ancora: il sesto pacchetto di sanzioni contro la Russia è stato bloccato a lungo in una sorta di balletto diplomatico. Il motivo? L’Ungheria. Desiderosa di ottenere esenzioni sul fronte del petrolio. Ungheria che, all’ultimo momento utile, è pure riuscita a depennare dalla lista di persone e personaggi oggetto di sanzioni il patriarca Kirill. 

Infine, è notizia di questi giorni l’opposizione ungherese all’accordo di sobrietà energetica, accettato dagli altri 26 Paesi membri dell’UE. Mentre tutti, in Europa, cercano una via d’uscita e delle alternative al gas russo, Budapest ne vuole ancora. Ancora e ancora. Va letta in questo senso la discussa e discutibile visita del ministro degli Esteri magiaro, Peter Szijjarto, a Mosca. 

L’Ungheria, d’altronde, rimane la nazione europea che più di tutte dipende dal gas russo. Rappresenta fino al 24% dell’energia consumata nel Paese. In caso di taglio totale, è stato stimato che il PIL dell’Ungheria potrebbe crollare di 6 punti. Questa prospettiva ha spinto Orbán a corteggiare il Cremlino, piuttosto che unirsi a Bruxelles. 

L’isolamento e la caduta 

L’Ungheria, dicevamo, è sempre più isolata. Lo scoppio della guerra, fra le altre cose, l’ha allontanata dal suo alleato tradizionale, la Polonia, mentre le tensioni con la Commissione Europea non hanno fatto che aumentare. Il motivo, beh, è doppio: la libertà di stampa e la protezione delle cosiddette minoranze sessuali, entrambe a rischio complici le politiche di Orbán. I fondi destinati da Bruxelles al Paese, ad oggi, sono congelati. E Budapest avrebbe fortemente bisogno di quei 15 miliardi. 

Il governo, per ovviare all’impasse, ha aumentato la pressione fiscale sulle piccole imprese. Provocando moti di protesta di un certo rilievo. In Transilvania, manco a dirlo, il primo ministro ungherese ha definito i manifestanti dei «drogati». Chiamatela diplomazia. 

L’inflazione galoppante e il rischio, concreto, di una crisi energetica, soprattutto, stanno costando caro al partito di Orbán, Fidesz, sceso dal 36% al 24% nelle intenzioni di voto. Una caduta che il primo ministro, come di consueto, ha cercato di attutire rispolverando teorie e politiche xenofobe. 

 

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