«Xi Jinping, l'uomo solo al comando che spaventa l'Occidente»

Al recente XX Congresso del PCC Xi Jinping ha ottenuto un terzo mandato e ha rafforzato i suoi poteri. Cosa cambierà nei rapporti con l’Occidente? Abbiamo sentito le valutazioni di Giovanni Andornino, docente di Relazioni internazionali dell'Asia orientale all'Università di Torino e profondo conoscitore della realtà cinese.
Xi Jinping ha accentrato il potere nelle sue mani. Così la Cina fa più paura all'Occidente?
«Da tempo gli Stati Uniti hanno abbandonato l’approccio di “engagement”, secondo cui una Cina prospera è nell’interesse dell’Occidente. È entrata in crisi l’ipotesi che la prosperità cinese, fondata su un ruolo dominante del mercato, implicasse una ritrazione del potere politico in un alveo di indirizzo generale, temperato dalle logiche del pragmatismo economico. Una Cina del genere, per così dire “liberale” in campo economico, se non politico, sarebbe una Cina più prevedibile e più simile a noi, che pure vediamo gli slanci dei nostri Governi essere moderati dalle forze dei mercati. L’esito del XX Congresso del PCC ci restituisce, invece, un uomo solo al comando di un Partito-Stato ad alto tasso di ideologia, in cui le decisioni possono non riflettere una razionalità per noi facilmente riconducibile a parametri noti o condivisibili. E un grande attore che diventa poco prevedibile spaventa di più».


Il Governo tedesco si è diviso sulla concessione di una quota del porto di Amburgo a una società cinese. In Italia la premier Meloni intende evitare una dipendenza dalla Cina, visto quanto accaduto con la Russia. Xi sa che i rapporti commerciali con l'UE rischiano di farsi più difficili?
«Il Governo cinese è consapevole delle difficoltà del momento e di quelle, ancora maggiori, che si prospettano. La Camera di Commercio dell’UE in Cina sottolinea da tempo il deterioramento delle prospettive commerciali e di investimento tra la Cina e i Ventisette. La reazione di Pechino mi pare improntata a obiettivi di autonomia strategica, nel tentativo di affrancare la Cina dalla dipendenza da Paesi potenzialmente ostili. È un’operazione comprensibile e non vale solo per la Cina. Anche in Occidente ci si è resi conto che una dipendenza marcata da determinati prodotti realizzati o assemblati in Cina può esporre a rischi eccessivi. La globalizzazione che abbiamo conosciuto è destinata a mutare sensibilmente di fisionomia nei prossimi decenni».
Per rispondere al rallentamento dell'economia cinese, Xi punterà maggiormente sull'Asia?
«Continuerà a puntare sull’Asia, ma anche su Africa sub-sahariana, Medio Oriente, ed Europa. In Europa percepiamo la Cina come molto distante, in questa fase, anche per via delle costrizioni della politica zero-Covid, che di fatto rendono il Paese inaccessibile ai più. Ma credo che questa fase sarà superata. La domanda è se nella fase successiva, quando ripartiranno gli spostamenti delle persone e delle merci, l’Europa respingerà nuove prospettive di collaborazione, oppure no. Le linee di Parigi, Berlino e Roma non convergono in questo momento. Anche a Bruxelles la situazione è fluida, pur essendo chiaro che la Commissione ha accresciuto la fermezza delle proprie posizioni».
Le difficoltà del mercato immobiliare cinese sono il segnale di preoccupanti squilibri interni?
«È una delle fragilità strutturali del sistema economico cinese. Le crisi di singoli operatori in ambito immobiliare sono fenomeni contingenti e possono essere gestite, ma riflettono rischi sistemici che richiedono di essere contenuti tramite politiche di lungo corso, politicamente onerose. Occorrerà vedere se il rafforzamento della posizione di Xi Jinping sarà preludio di decisioni difficili ma necessarie. Certo, a questo punto, non gli mancano gli strumenti per incidere sulla governance dell’economia cinese».
Un eventuale successo dei repubblicani nelle elezioni di Midterm potrebbe influire sulle relazioni tra USA e Cina?
«Le politiche di contrasto all’ascesa della Cina sono forse l’unico ambito sul quale vi è convergenza tra Democratici e Repubblicani. Il sistema politico statunitense è unanime nel considerare la Cina la maggiore minaccia di lungo periodo. Il punto è stato evidenziato anche nella recente National Security Strategy pubblicata dalla Casa Bianca il 12 ottobre scorso».
Ritiene possibili maggiori sforzi di Pechino per spingere Mosca a un negoziato sull'Ucraina, viste le conseguenze negative della guerra sull'economia?
«Sono possibili nel senso che Pechino ha il peso e gli strumenti per compiere tali sforzi. Agli occhi dell’opinione pubblica occidentale beneficerebbe enormemente da un simile impegno. Devo però dire che, al momento, non mi pare di cogliere le premesse per un significativo mutamento di posizione sul piano pubblico. Non sono in condizione di commentare, invece, eventuali prese di posizione su canali riservati, sempre attivi».