Il reportage

Nascita e morte del Rojava curdo, ultima terra libera

Viaggio nel nord est della Siria, dove la Turchia di Erdogan ha scatenato la guerra
Un corteo funebre. ©CdT/Filippo Rossi
Filippo Rossi
24.10.2019 06:00

«Good Luck», dice l’autista Mohamed quando riparte dal confine di Fish Khabor per tornare in città. Questo è l’unico punto di passaggio per entrare in Rojava, il nord est della Siria e regione curda. Prendo il mio giubbotto antiproiettile e il mio zainetto, niente più. Mi dirigo verso il bus che mi farà attraversare il fiume Tigri da un ponte militare. Ecco la Siria. Paesaggio verde ma ancora un po’ brullo dopo l’estate. Appena si guarda verso la frontiera turca, a pochi chilometri, il fumo nero si innalza verso il cielo. E ci riporta alla realtà. Sono i segni della guerra che ha colpito il Rojava per due settimane. A Qamishli, principale punto strategico della regione, la tensione è altissima. Il Governo siriano ha appena rinforzato la sua presenza dopo un accordo con le Forze democratiche siriane (FDS), le forze curdo-arabe che controllano la regione. Con questa decisione ha fatto fuggire tutte le ONG occidentali e i giornalisti, impauriti di ricevere un biglietto aereo diretto per Damasco. Non si è sicuri da nessuna parte, nemmeno in albergo. Oltre ai mortai turchi, alla loro aviazione e al pericolo jihadista, si rischia anche la prigione del regime.

La disperazione

Nonostante il cessate il fuoco del 17 ottobre, la guerra si continua a sentire. Gli sfollati sono ovunque e continuano ad aumentare. E più ci si avvicina al fronte, più i segni della distruzione sono presenti. All’ospedale di Tel Tamer, non lontano da Ras al Ain, cittadina diventata l’epicentro dei combattimenti anche dopo l’inizio della tregua (terminata martedì), i feriti arrivano insieme ai cadaveri estratti dalle macerie. L’odore è nauseabondo. Le famiglie entrano strepitando, urlando, aggredendo personale medico impotente. Soffrono vedendo i corpi dei loro cari rinchiusi in una sacca nera e poi trasportati all’obitorio in un una cella frigorifera per gelati. Una scena terribile, che spezza il cuore. Una tragedia. «Erdogan ci attacca con tutte le armi possibili, anche con quelle proibite per uccidere le nostre donne e i nostri bambini» commenta una donna, mentre in sottofondo i famigliari gridano pretendendo di vedere i volti dei cadaveri.

«È un crimine di guerra»

L’emergenza feriti è diventata un problema. Ras al Ain, ultimo fulcro di resistenza agli attacchi turchi e dei miliziani dell’Esercito nazionale siriano (composto soprattutto da membri dell’Esercito siriano libero -ENS), sostenuto da Ankara, è caduta domenica dopo aver resistito a un assedio durato giorni ed essere stata pesantemente bombardata. «Non abbiamo avuto accesso ai feriti perché la Turchia non ce lo ha concesso. Questo è un crimine di guerra» commenta il dottor Javan, ministro della sanità nella regione di Tel Tamer. La città è ora dominata dall’ENS, che controlla una sacca di 80 chilometri lungo il confine. Tel Tamer è a ridosso di un fronte fantomatico. Inesistente. Più ci si avvicina a Ras al Ain, più tutto diventa spettrale. Nessuna macchina. Solo il vento che sposta gli alberi e i droni ad osservarti dall’alto. Si capisce che si è vicini al pericolo quando si sente il rumore dei jet turchi. La prima linea è confusa, si rischiano imboscate. Più a ovest non ci si può spingere, le milizie appoggiate dai turchi controllano le vie e il governo siriano ha messo dei punti di controllo sulla strada. Due giorni dopo il cessate il fuoco, un convoglio composto da 30 ambulanze riesce finalmente ad entrare a Ras al Ain, sotto tiro da parte delle ENS. Riescono ad evacuare 30 feriti e 5 morti. Il giorno seguente ancora, ma le ambulanze evacuano anche soldati e i civili. Ras al Ain cade e così finisce l’ultimo baluardo di resistenza curda. Dando il via a negoziati sbilanciati e terminando per sempre il sogno di un Rojava indipendente.

Non torneranno più a casa

«La città era distrutta. Ma non rasa al suolo. Siamo andati a prendere i feriti all’ospedale e poi al mercato a caricare i civili. Aspettavano pronti con le valigie come se dovessero prendere il bus» racconta David Eubank, un ex-ranger dell’esercito americano e oggi direttore dei Free Rangers Burma, organizzazione medica e paramilitare che porta sostegno sulla prima linea. Ras al Ain, tuttavia, è solo una piccola goccia di una guerra che ha fatto molti morti e centinaia di migliaia di sfollati che probabilmente non potranno più tornare a casa. «Sono rimasto fino all’ultimo ma se l’ENS non se ne andrà non tornerò, sono come Daesh. Li ho visti. Hanno barbe lunghe, capelli lunghi, girano con i coltelli. Ecco chi sostiene la Turchia» commenta Mohamed, un ferito evacuato con il primo convoglio. Ha la faccia ustionata e il corpo rotto, ma tiene la sigaretta nella mano dove viene iniettata la flebo. Il Rojava è alle corde. Gli sfollati occupano le scuole e l’inverno sta per arrivare. Vivono con poco e tutti ammassati. In alcune scuole molte famiglie condividono uno spazio di otto metri quadrati. Da sogno il Rojava è diventato incubo. Solo quattro anni dopo la storica vittoria curda a Kobane contro l’ISIS.

Cosa è successo in due settimane di conflitto

L’inizio della fine

Dopo la decisione di Donald Trump (nell’aria da parecchi mesi) di ritirare le truppe americane dalla Siria, il 9 ottobre la Turchia ha dato il via all’operazione «Sorgente di pace» nella regione curda-siriana del Rojava. Le principali città curde controllate dalle Forze democratiche siriane (FDS), dalla truppa d’élite curda, dalle Unità di protezione popolare e delle donne (YPG e YPJ), sono presto state vittime dell’aviazione e dell’artiglieria di Ankara, che non ha perso tempo dopo che Erdogan avrebbe ricevuto il via libera dalla Casa bianca. Sul terreno, i turchi hanno inviato un gruppo di miliziani dell’Esercito siriano libero (ESL) e miliziani di ex gruppi affiliati ad Al-Qaeda, denominato Esercito nazionale siriano (ENS) che hanno conquistato una striscia di un’ottantina di chilometri che si estende da Ras al Ain fino alle porte di Kobane.

120 ore di tregua

Il 17 ottobre, dopo giorni di bombardamenti incessanti, Erdogan concede 120 ore di cessate il fuoco, terminato martedì sera alle 22, per permettere alle truppe curde di ritirarsi di 30 chilometri. Ma in realtà gli attacchi sono continuati, soprattutto nei confronti della città di Ras al Ain, ultimo vero fronte di resistenza delle FDS. La città ha fatto appello alla sua ultima carta, il regime di Bashar al-Assad, perché venisse in soccorso e proteggesse il territorio nazionale. Le truppe dell’esercito siriano, già presenti prima in determinati punti strategici, hanno aumentato la loro presenza al confine, entrando a Kobane il 16 ottobre e rinforzando i ranghi vicino al confine. Lunedì sera, inoltre, la Russia ha inviato soldati al confine orientale fra Qamishli e Debrik.

Oltre 500 morti

L’invasione appoggiata dalla Turchia è costata cara ai curdi siriani, che non solo hanno visto svanire il sogno di un Rojava indipendente, con il ritorno massiccio della presenza delle truppe del regime di Damasco, ma sono anche stati pesantemente attaccati subendo ingenti perdite. Dati ufficiali delle FDS hanno dichiarato il 20 ottobre che gli sfollati interni erano più di 400 mila e i morti civili oltre 500. Un dato che è destinato a salire, visto che molti stanno ancora fuggendo dalle zone controllate dall’ENS.

Le armi proibite

Oltre ad attaccare indiscriminatamente il Rojava, la Turchia è stata accusata dalle autorità curde e dalle SDF di usare armi «proibite» per colpire obiettivi militari e civili. «I feriti presentano pustole nere e parti gialle oltre che un cambiamento di voce. Si sospetta sia fosforo ma non possiamo confermarlo perché non abbiamo i laboratori» commenta il dottor Sino dell’ospedale nazionale di Hasake, dove la maggior parte dei feriti sono stati ricoverati. Gli attacchi sarebbero avvenuti nella città di A’aliya, non lontano da Tel Tamer, 30 chilometri a sud di Ras al Ain. L’ONU ha aperto un’inchiesta.

L’accordo e la fine del conflitto

La conquista del territorio da parte della Turchia segue una dichiarazione da parte di Erdogan di voler investire 20 miliardi di dollari nelle zone conquistate dall’ENS per ricollocare un milione di rifugiati siriani presenti sul territorio. Un piano che sembrerebbe fatto per creare una «safe zone» ed eliminare la presenza curda nella regione. Il 22 ottobre, dopo un incontro fra il presidente turco e Vladimir Putin, le operazioni belliche si sono concluse con un accordo di collaborazione per pattugliare la frontiera e ritirare le truppe YPG/YPJ dal confine, come richiesto. Nella notte fra il 22 e il 23 ottobre, quando si pensava al peggio, c’è stato solo qualche sparo. Ma il sogno di uno Stato curdo, un Rojava indipendente, è definitivamente svanito.